Wimbledon, il cimitero dei campioni e altre leggende

Quattro porte ha Damasco 

Mistero Solitudine Disinganno Paura.

Non varcarle, o viandante, e mai cantando. 

Non conosci il silenzio di quei luoghi 

dove gli uccelli sono tutti morti

ma s’ode ancora un trillo?

James Elroy Flecker

Wimbledon. Semplice da pronunciare, ma non troppo, a pensarci bene. Wimble-den. La cadenza troppo british ti fa sorgere il dubbio se sia proprio quello il posto dove si disputa il torneo di tennis. Poi c’é dell’altro, molto altro. Perché ecco, a Melbourne Park ci si riflette quasi sul fiume Yarra e l’efficenza aussie si sposa a meraviglia con il distretto finanziario che si estende a pochi passi, in termini di yards s’intende, mentre nel quartiere d’Auteuil si respira Parigi tanto che basta arrampicarsi in cima alla terza categoria del Philippe Chatrier per distinguere la Torre Eiffel, non parliamo poi di Flushing Meadows, il parco di 500 ettari creato sulla valle di ceneri descritta da Francis Scott Fitzgerald in Il Grande Gatsby, dove nonostante tutto ti senti accartocciato nel ventre di New York. A Wimbledon invece… Non sei propriamente a Londra. Soprattutto nei giorni precedenti il torneo, prima che il delirio si impossessi degli appassionati del nobil gioco, gente pronta a tutto, come accettare la possibilità di essere sorteggiati di anno in anno in occasione della lotteria ufficiale per avere un biglietto tra le mani, colpo di fortuna che difficilmente si avvererà, quindi uomini e donne di ogni età, provvisti dell’indispensabile queue card, disposti a fissare per quattro, cinque ore, la nuca dell’individuo che lo precede pur di avere la meglio sulla mitologica queue, magari dopo aver campeggiato all’addiaccio.

Ad ogni modo, quando si innesca tutto ciò, Wimbledon diventa un’altra cosa ancora. Per questo soffermiamoci sul prima: un ordinato paesino di campagna dove tutto sembra essere sincronizzato affinché ogni meccanismo che lo compone proceda alla stessa velocità. È forse questo ad intingere un che di soporifero all’atmosfera, uggiosa o limpida che sia. Le auto che avanzano senza nessun autista impossessato dalla smania di investire un pedone, i pedoni che si avvicendano come fossero parte di un organismo infallibile, anche se devono semplicemente portare a spasso il cane, ed i cani che, pure loro, sembrano consci del loro posto nel mondo, in quel genere di mondo. Le distesi verdi immaginate leggendo L’amante di lady Chatterley non sono poi così lontane. Da uno degli edifici vittoriani di colore rosso acceso potrebbe uscire una Signora Dalloway intenta ad andare a comprare i fiori, con un sorriso di circostanza stampato sul volto ma intimamente esasperata da quel panorama troppo zelante, quasi fosse il risultato di una sfalsata meticolosità esistenziale. Se poi anziché in hotel prendi alloggio in un appartamento non sarebbe un colpo di scena troppo destabilizzante se un mattino senti il vicino salutare recitando «Buongiorno! E casomai non vi rivedessi, buon pomeriggio buonasera e buona notte»; ed al che scopri che pure tu eri parti del Truman Show.

Ma siamo qui per parlare del torneo quindi entriamo in questo benedetto All England (Lawn Tennis and CroquetClub. La procedura descritta poche righe più su autorizza un qualsiasi individuo con cui vi può capitare di incrociare lo sguardo di emanare la fierezza classica di chi è consapevole di essersela guadagnata. D’altronde, per l’amor di Dio – o meglio ancora della regina -, esiste forse un altro torneo che richiede una prova d’amore così impegnativa? Ed ora spazio alla solita banalità: la tecnologia, le innovazioni, il progresso, insomma tutto quel genere di cose per cui il resto del mondo tennistico fa a gara per arrivare prima, a Wimbledon viene osservato a distanza, persino con una certa dose di sospetto. 

Non è solo questione degli abitini rigorosamente tutti bianchi, non è il manto verde che deve essere mantenuto all’infallibile altezza di 8 mm, non è quel MrMiss, o Mrs pronunciato dall’arbitro a precedere nome e cognome dei giocatori, è l’ambiente in sé che plasmache manipola. La mancanza di feeling con l’elettronica allunga i propri tentacoli sui presenti che, forse influenzati dal contesto, sono decisamente più restii a scattare imperterriti fotografie o selfie, facilitando non poco gli oneri degli arbitri di sedia, molto meno impegnati che altrove a invitare il pubblico a spegnere un qualsivoglia marchingegno diabolico, in quanto non di rado basta l’occhiata non troppo amichevole di un vicino di posto a convincere un potenziale malintenzionato a riporre riporre la fonte di disturbo in tasca.

Nel santuario di Church Road anche il cibo vuole la sua parte. Non che sia un grosso sacrificio, ma ti senti obbligato di presentarti all’Aorangi Food per poter assaggiare le proverbiali fragole e panna e scolarti un bicchiere di Pimms. Quando poi scatta l’ora del the’ il The Lawn è un richiamo più irresistibile del match in programma sul Centre Court. E intanto che ci sei ordini pure un piattino di scones perché ormai sei lì e così si fa. Certo, incapaci di convincere i falchi veri a confermare le chiamate dei giudici di linea è stato ammesso Hawk-Eye e in caso di pioggia almeno il centrale viene coperto da uno splendido tetto. Anche questi “perfezionamenti” però non riescono a scuotere Wimbledon, quasi navigasse in una dimensione non solo al di fuori dal tempo, anche al di fuori del mondo.

E poi c’é il silenzio. Niente a che vedere con la reticenza di un tempio, semmai la sensazione è di essere al di là di una vetrata enorme che separa un corridoio illuminato a neon da un abissale acquario marino; perché in verità il silenzio che resta impresso non è tanto quello al di fuori dal campo, quanto quello dentro al campo, al di là del vetro immaginario. Questo perché sull’erba le scarpe non “cigolano” come sul cemento, non “arano” il terreno come sul rosso; lì, su quel verde, vestito di bianco, pure il rappresentante più sgraziato assume una propria dignità, quasi bastasse quel tappeto a rendere chiunque più felino, più conforme all’etichetta di nobiltà che tanto si addice ai Championships. Il comunicare sottovoce, al limite dei gesti, tra i componenti dei team seri, le pratiche di allenamento che sembrano svolgersi come da copione, gli accompagnatori che si illuminano di luce riflessa senza però mai scrollarsi di dosso il timore di essere di troppo, di disturbare chissà quale presenza superiore che ancora permette che tutto ciò si possa compiere. Se attento, lo spettatore comune percepisce tutto ciò e si adatta più o meno volontariamente al mood, mentre il resto del pubblico, coloro per cui già essere lì è una conquista al pari di aver picchettato una bandiera sul monte Suribachi, per quanto reduci da una «kiù» atroce e condizionati dal clima rarefatto, più si allontanano dal Centre Court più assumono una parvenza umana e quando ad impugnare la racchetta è un britannico tendono a farsi sentire.

Quanto alla storia – che vuol sempre la sua parte -; la prima edizione dell’evento si tenne nel 1877 all’All England Croquet Club, nei pressi di Worple Road, quando uno dei soci fondatori Henry Jones ebbe l’idea di affiancare il tennis al croquet. L’iniziativa piacque anche a J.H. Walsh, direttore della rivista Field che, nell’edizione del 9 giugno 1877, pubblicò quanto segue: “L’All England Croquet and Tennis Club propone l’organizzazione di un torneo di tennis, aperto a tutti i dilettanti, lunedì, 9 luglio e nei giorni seguenti. Tassa d’ingresso una sterlina e uno scellino. Due premi vengono assegnati, uno in oro al vincitore e uno in argento al secondo classificato”. Tra l’altro, il giornale mise in palio di sua iniziativa una coppa del valore di 25 ghinee. La competizione si limitò al torneo maschile, gli iscritti furono 22 e vinse Spencer Gore, oltretutto un ottimo crickettista. Visto le deboli possibilità di giocare efficacemente da fondo campo, Gore si era piazzato a rete intercettando la maggior parte delle palle del suo avversario, William Marshall. Ciò gli permise di concludere rapidamente l’incontro. Gli addetti ai lavori contestarono la validità del gioco al volo, e nacque una lunga controversia. Infine la volée  venne accettata, a patto che non si toccasse la rete o non la si oltrepassasse con la racchetta.

Essendo in vigore il sistema del challenge round, ossia il campione uscente veniva opposto in finale al vincitore del tabellone, l’anno dopo Gore si trovò dall’altra parte della rete Frank Hadow, il quale respinse il connazionale a suon di pallonetti. Di fatto, fu il secondo campione di Wimbledon l’inventore del lob. A disputare la finale nel 1879 furono invece un prete e un futuro assassino. Il reverendo John Harthley, vicario nello Yorkshire, sconfisse lo scaltro irlandese Thomas Goold. Anni dopo, precisamente nel 1907, mentre era a Montecarlo con la moglie, Goold conobbe una ricca vedova danese, Emma Levin, le rubò tutti i gioielli e la uccise. Se il reverendo Hartley vinse pure l’anno successivo, dal 1881 al 1886 si impose William Renshaw, poi autore della settima stoccata nel 1889. William non fu solo il primo divo del tennis, ma si dimostrò anche il primo capace di “schiacciare” un pallonetto di Hartley. E fu così che i 1300 spettatori presenti videro uno smash. Sconfitto in quattro finali, di cui tre dal fratello, Ernest Renshaw l’ha spuntata almeno una volta, nel 1888, ai danni di Herbert Lawford, a sua volta finalista in sei circostanze. Fu Lawford ad usare per primo il cosiddetto “diritto Lawford” ossia il diritto in top spin.

Negli anni sarebbe successo di ogni. Tra il 1897 e il 1906 a spadroneggiare sono stati i fratelli Reginald e Lawrence Doherty: dal 1897 al 1900 ha trionfato il primo, dal 1902 al 1906 ha esultato il secondo. Il primo “non britannico” a comparire nell’albo d’oro di Wimbledon è l’australiano Norman Brookes, mentre tra il 1910 e il 1913, a mettere tutti in riga è invece stato il talentuoso quanto sfortunato neozelandese Anthony Wilding, deceduto il 9 maggio 1915 a soli trentadue anni sul campo di battaglia di Neuve-Chapelle. Solo Bill Tilden e Gerald Patterson detengono l’onore di aver vinto tanto nella vecchia quanto nella nuova sede, spostatasi nel 1922 vicino a Church Road. Negli anni ’30 hanno scritto pezzi di storia i Moschettieri Jean Borotrà, Henri Cochet e René Lacoste; Don Budge ha cementato la terza pietra per realizzare il Grande Slam e Fred Perry, con la sua tripletta tra il 1934 e il 1936 ha detenuto il record di ultimo britannico a svettare a Wimbledon per 76 anni finché, nel 2013, sarebbe arrivato Andy Murray.

Svariati sarebbero stati i vincitori da “una stagione” di cui ci limitiamo a citare gli yankee Jack Kramer, Vic Seixas e Tony Trabert, l’aussie Frank Sedgman e il “cittadino del mondo” Jaroslav Drobny. Nemmeno a dirlo l’Australia ha continuato a “far danni” con Lew Hoad, Ashley Cooper, Neale Fraser, Roy Emerson, il duplice signore slam Rod Laver e John Newcombe; questi ultimi i soli capaci di trionfare a Wimbledon sia nell’Era Open che pre Open. Gli assoli prodotti da Stan Smith nel 1972, da Jan Kodes nel 1973, spietato nello spegnere il sogno sovietico di Alex Metreveli, e da Arthur Ashe nel 1975, hanno fatto da cornice ad un decennio dominato da tre grandissimi protagonisti: Bjorn Borg, John McEnroe e Jimmy Connors. Su sei ultimi atti disputati, il burrascoso Jimmy Connors ha potuto urlare la propria gioia nel 1974 su un un quarantenne Ken Rosewall giunto alla sua quarta finale, e nel 1982 sul “nemico giurato” McEnroe. Ugualmente sei sono state le finali giocate da Bjorn Borg. L’Orso Svedese per cinque anni consecutivi, dal 1976 al 1980, ha però respinto tutto e tutti: da Ilie Nastase a Jimmy Connors, da Roscoe Tunner a John McEnroe finché, nel 1981, proprio il geniale moccioso yankee ha usurpato il trono dell’uomo di ghiaccio, per quindi riporre in valigia pure le edizioni del 1983 e del 1984. 

L’ascesa del panzer Boris Becker, implacabile nel 1985, quando è diventato il più giovane campione dei Championships, nel 1986 e nel 1989, l’acuto di Pat Cash nel 1987 e i ricami di Stefan Edberg nel 1988 e nel 1990 hanno impedito ad Ivan Lendl di venire a capo della sua ossessione. Wimbledon si è sempre negato al ceco, mentre è finito nella bacheca di Andre Agassi, di Richard Krajicek 6, di Goran Ivanisevic, di Lleyton Hewitt ma anche dei non propriamente erbivori Rafael Natale e Novak Djokovic. Due saranno però i grandi sovrani del Centre Court: Pete Sampras e Roger Federer. Prodigiosi e sublimi nello stringere in pugno sette sigilli l’americano e addirittura 8 l’elvetico.

Ed ora le signore. La prima edizione del torneo femminile si è svolta nel 1884, sette anni dopo l’inaugurazione della competizione maschile, ed è stata vinta dall’inglese Maud Watson, poi ripetutosi pure l’anno dopo. Ad imporsi nel 1886 è Blanche Bingley che, diventata signora Hillyard, svetterà i altre cinque circostanze, per quindi continuare a partecipare al torneo fino al 1913, ormai quarantanovenne. Giovanissima è invece la campionessa del 1887, la non ancora sedicenne Lottie Dod. Figlia di un mercante di cotone, Lottie ha conquistato un totale di cinque titoli, battendo in finale sempre Blanche Bingley Hillyard. I primi anni del ‘900 promuovono a pieni voti la figlia del vicario della chiesa di St. Matthew, Dorothea Douglass Chambers – assolutista nel 1903, 1904, 1906, 1910, 1911, 1913 e 1914 -.

Di ritorno dal primo conflitto mondiale, dal 1919 al 1925 Wimbledon ha avuto nella Divine Suzanne Lenglen un’implacabile regina. L’assenza della francese nel 1924, ha probabilmente consentito all’inglese Kitty McKane di alzare le braccia al cielo, ad ogni modo la beniamina di casa ha concesso il bis nel 1926. Wimbledon diventa poi terreno di conquista della statunitense Helen Wills Moody, nota pure come ”Little Miss Poker Face” per i suoi modi freddi e l’espressione imperscrutabile. Di palesi sono invece gli 8 titoli riposti in bacheca. Per tornare a parlare di miti bisogna attendere la fine degli anni ’40 con Louise Brough e la signora, mentre la decade successiva apre i cancelli alla signora dei tris Doris Hart e alla prima Miss Grande Slam Maurenn Connoly; campionessa dal 1952 al 1954 finché, proprio nel luglio del tris, una caduta da cavallo la costrinse a porre fine alla sua carriera.

L’albo d’oro ha quindi accolto a braccia aperte la prima donna di colore capace di vincere uno slam, ovvero Althea Gibson, seguita dell’affascinante Maria Bueno, dall’arcigna quanto incontestabile Margaret Smith Court, dalla ribelle Billie Jean King per arrivare all’aborigena Evonne Goolagong. Dati alla mano, l’ultima britannica ad accendere gli animi del pubblico di casa è stata l’elegante Virginia Wade nel 1977. Su dieci finali disputate Chris Evert ha afferrato il “Venus Rosewater dish” in tre occasioni, mentre a detenere il record di vittorie sarà la sua rivale di sempre, Martina Navratilova, dittatrice in nove edizioni. Di spessore sono poi i 7 titoli intascati da Steffi Graf, la stoccata della terraiola Conchita Martinez, così come la commuovente apoteosi di Jana Novotna. Il pezzo di storia più significativo è però forse custodito tra le pieghe del ricamo firmato da Martina Hingis a soli quindici anni e dieci mesi. Se nel 1999 Lindsay Davenport ha chiuso la carriera di Steffi Graf, il nuovo millennio ha dato il via alla storia d’amore tra Wimbledon e le sorelle Williams. Nell’arco di sedici anni tra Venus – 5 vittorie – e Serena – 7 vittorie -; si sono insinuate giusto la russa, allora diciassettenne, Maria Sharapova, la ceca Petra Kvitova e le francesi Amelie Mauresmo e Marion Bartoli. Degno di nota il fatto che Venus sia tornata a disputare una finale, seppur perdendola contro Garbine Muguruza, a distanza di nove anni, a diciassette dal primo acuto.

Un’atmosfera tanto magnificente non poteva non dar vita a gesta epiche. E questo, senza per forza dover parlare di campioni o trofei. Correva l’anno 2010 quando Nicolas Mahut, n.148 del ranking ATP supera le qualificazioni ed affronta al primo turno John Isner. Il match vede la luce il 22 giugno alle 18:18 sul campo numero 18. I primi due set scorrono velocemente andando uno al transalpino e l’altro allo statunitense; così come la terza e la quarta  manche vengono spartiti con la stessa procedura da altrettanti tie-break. Al che, causa oscurità. il match viene sospeso alle 21:03. Il quinto set inizia il 23 giugno alle 14:07 e, dopo più di sette sul punteggio di 59-59, alle 21:10, i due avversari vengono invitati a raggiungere gli spogliatoi. Già questo sarebbe bastato per superare il record di match più lungo nella storia del tennis sia per numero di game giocati che per tempo in campo. Tutto ciò però non basta per accogliere la proposta di alcuni addetti ai lavori, tra i quali McEnroe ora in veste di telecronista, di concedere ai due tennisti l’onore di giocare sul campo centrale. Il match riprende il 24 giugno; alle 15:42. Vinto il game del 60-59 Isner tocca quota 100 ace nella partita e, quindici minuti dopo, sul 62-62, Mahut lo eguaglia. Dopo 11 ore e 5 minuti di gioco, con sempre Mohamed Lahyani come giudice di sedia, al quinto match point, John Isner ne usce vincitore con il punteggio di 6–4 3–6 6–7(7) 7–6(3) 70–68.

Il lato oscuro di Wimbledon è invece rappresentato dalla leggenda, anche se sarebbe forse più appropriato definirla maledizione, che per anni ha accompagno il campo numero 2 il quale sarà nei secoli dei secoli ricordato come il cimitero dei campioni. Dotato di una capacità di 2192 posti a sedere, più 770 in piedi, sulla sua erba sono infatti caduti inaspettatamente campioni e pretendenti al titolo. Tutto ebbe inizio nel 1979 quando il secondo favorito dell’evento, John McEnroe viene brutalmente abbattuto con un secco  6-4 6-2 6-4 dal compianto Tim Gullickson. Il campo numero 2 sarà due volte fatale a Jimmy Connors. Presentatosi come detentore del titolo, nel 1983, a esporre il cartellino rosso a Jimbo è il sudafricano  Kevin Curren; ma ancor più scioccante è stata la sconfitta patita cinque anni dopo per mano del tedesco Patrick Kuhnen per di 5-7 7-5(7) 7-6(2) 6-7(4) 6-3. Nel 1984 pianse lacrime amare Virginia Wade quando, ormai trentanovenne, finì la benzina contro Carina Karlsson, spiccata per 6-2 4-6 11-9. Dopo lo strepitoso uno-due piazzato nel biennio 1985-1986 da Boris Becker, l’anno dopo il tedesco venne asfaltato al secondo turno dal carneade australiano Peter Doohan. Esattamente sei anni dopo il suo trionfo il campo numero 2 punisce Pat Cash, giustiziato 7-5 6-7 4-6 6-1 10-8 dall’incostante Thierry Champion. Clamorosa fu inoltre l’eliminazione, nel 1994, al primo round, della seconda testa di serie – vincitore ai Championships tre anni prima – Michael Stich, contro il qualificato Bryan Shelton, al termine di un apatico 6-3 6-3 6-4. Nel 1996 sarebbe stata la volta di Andre Agassi, demolito al primo giro da Doug Flac. Inconsueta fu certamente l’eliminazione subita nel nel 1998 da Conchita Martinez quando al terzo turno venne annichilita dalla semi-sconosciuta Samantha Smith. Giusto un anno dopo sul campo 2 si sgretola Richard Krajicek, rispedito in Olanda dall’elvetico Lorenzo Manta, onesto mestierante incapace di entrare tra i top-100 del ranking. Amara fu l’ultima partecipazione di Pete Sampras a Wimbledon. Confinato sul cimitero dei campioni, il dominatore di 7 edizioni, venne regolato dal n.145 del mondo George Bastl. Nemmeno le quasi invincibili sorelle Williams sono riuscite a “salvare la pelle” dal campo numero 2: nel 2005, dopo tre finali consecutive, Serena Williams è inciampata al terzo step contro Jill Craybass; mentre l’anno dopo Venus, da campionessa uscente, è stata sistemata da Jelena Jankovic. Lacerante fu inoltre la sconfitta in cui si sarebbe abbattuta Martina Hingis, nel 2007, quando a dieci anni di distanza dal suo trionfo, venne eliminata ai sedicesimi da Laura Granville. Rinumerato come Court n.3 per l’edizione del 2009, il campo fu demolito per permettere la costruzione di nuovi campi 3 e 4, poi a puntino per l’edizione del 2011. Il diabolico campo numero 2 venne situato nell’ubicazione precedente del numero 13, con una capacità di 4000 posti a sedere. Uno dei rari e vani tentativi per rinnegare un passato che a Wimbledon sarà irrimediabilmente mescolato non solo con il presente, persino con il futuro.