Andy Murray, l’umano che sconfisse gli alieni

Verso le 9.30 di mercoledì 13 marzo 1996, il quarantatreenne Thomas Watt Hamilton fece irruzione nella palestra della Primary School di Dunblane, dove ventinove bambini della prima elementare stavano per iniziare l’ora di ginnastica. Estrasse una dopo l’altra quattro pistole e iniziò a far fuoco sui bimbi e sul personale docente per circa quattro minuti. Compiuta la strage, l’uomo rivolse la pistola contro di sé e si tolse la vita. I 105 proiettili esplosi uccisero 16 bambini e la loro maestra. Andy Murray e il fratello Jamie frequentavano la Primary School: avevano rispettivamente otto e dieci anni e le loro classi erano nello stesso piano della palestra dove avvenne quel raccapricciante episodio di cronaca poi ricordato come il massacro di Dunblane. In quel mentre erano in corridoio, ancora disimpegnati per via del cambio delle lezioni. Fu Jamie a prendere per mano il fratellino per condurlo sotto a una cattedra. Finché gli spari finirono, lasciando solo il ricordo.

Andrew Barron Murray nasce a a Glasgow, in Scozia, il 15 maggio 1987,  secondogenito di William Murray, un manager per una catena di edicole, e di Judy Erskine, un coach di tennis, figlia del calciatore scozzese Roy Erskine. Andy ha tre anni quando, insieme a Jamie, maggiore di due, inizia a giocare a tennis sotto alla guida della madre, mentre ne ha nove quando lei abbandona la famiglia per potersi dedicare alla carriera, lasciando l’uomo che presto divenne l’ex marito a occuparsi dei figli in ogni aspetto del quotidiano. Ne soffrirono entrambi, ma quell’esperienza li rinforzò e mai avvenne un vero e proprio strappo: Judy continuò ad allenarli, a seguirli ai tornei quando possibile, a consigliarli. Andy e Jamie erano agli antipodi, in tutti i sensi li si considerasse: la spensierata impulsività che accompagnava la ricerca di un gioco spettacolare da parte del fratello maggiore; cozzava con l’inflessibile solidità che caratterizzava il minore, più talentuoso eppure più predisposto alla sofferenza, a portarsi a casa le partite facendo leva sulla lotta. Ad Andy poi, piaceva pure il calcio e nonostante, appena tredicenne, avesse già collezionato due vittorie in altrettante edizioni dell’Orange Bowl, di punto in bianco decise di posare la racchetta per dare calci al pallone tra le file dei Rangers Glasgow. La madre la prese male, ma probabilmente Andy reagì ancora peggio alle entrate degli avversari negli stinchi e allora ebbe un ritorno di fiamma con il tennis.

Decisosi a fare sul serio, verso i 15 anni anni Andy Murray si trasferisce a Barcellona, presso l’Accademia Sanchez-Casal. L’accordo prevede 18 mesi di allenamenti con Pato Alvarez disposto a seguirlo ai tornei al costo di 40,0000 sterline. Nel luglio 2003 fa il suo esordio, raggiungendo i quarti al torneo Challenger di Manchester e nel settembre dello stesso anno è profeta in patria nel Futures organizzato a Glasgow. Tra il 2004 ed il 2005 prosegue il suo percorso di crescita alternando competizioni juniores – vincendo tra l’altro l’US Open in finale su Djokovic -; Futures e Challenger – incamerandone ben 6 -; oltre a tornei del circuito ATP dove, il 1 ottobre 2005 disputa la sua prima finale a Bangkok venendo sconfitto 6-3 7-5 da Roger Federer. Chiusa l’annata come n.64, il 19 febbraio 2006 Andy Murray mette le mani sul suo primo titolo ATP: avviene sul cemento indoor di San José dove ha la meglio sull’ex n.1 del mondo Lleyton Hewitt con il punteggio di 2-6 6-1 7-6(3). A fine 2006 Murray è il n. 17 del ranking con tanto di vittorie sul leader della classifica Federer a Cincinnati e sul n.3 Ljubicic a Madrid.

Sono anni in cui il circuito è sotto al controllo di due extraterrestri: Roger Federer e Rafael Nadal. Nel 2007 se ne aggiungerà un terzo ma, nonostante il bis a San Jose, la vittoria a San Pietroburgo, l’approdo in semifinale sia a Indian Wells che a Miami, nonché lo sfondamento del muro della top 10, non sarà lo scozzese a far sentire il fiato sul collo all’elvetico e allo spagnolo, bensì il suo rivale di sempre, il serbo Novak Djokovic. E così, mentre Jamie decide di dedicarsi solamente al doppio – specialità in cui vincerà due slam e nel 2016 diventerà n.1 del mondo -; al predestinato Andy anziché il ruolo di cavaliere pronto a ristabilire ordine sul pianeta terra impadronendosi del regno dei due marziani, si ritrova rilegato al ruolo di “quarto incomodo”.

E dire che anche Andy Murray, con la normalità ha sempre avuto poco a che vedere. Nel 2008 si impone infatti negli ATP 250 di Doha, Marsiglia e San Pietroburgo e trionfa ai Master 1000 di Madrid e Cincinnati. All’US Open disputa inoltre un torneo strepitoso ma, dopo aver superato Del Potro e Nadal non riesce a fare scacco matto e – a differenza di Djokovic che a gennaio si era aggiudicato l’Australian Open – il british si arrende Federer nell’ultimo atto. Se l’8 settembre 2008 compare per la prima volta tra i top 5, nell’agosto 2009 sale addirittura sul secondo gradino per infine chiudere la stagione in quarta posizione forte di 6 tornei riposti in bacheca tra cui gli ATP 500 di Rotterdam – in finale su Nadal – e Valencia – sull’estroso Yuzhny – più il Master 1000 di Miami – dove ha la meglio su Novak Djokovic -; mentre a livello slam si inceppa agli ottavi di Melbourne e New York – sorpreso da Verdasco e Cilic -, mentre ai quarti di Parigi fa seguito la semifinale di Wimbledon, dove si inchina all’ultimo guizzo londinese di Roddick.

Tra il 2010 e il 2011 i titoli riposti in saccoccia da Andy sono 7; tra essi spiccano il bis a Cincinnati – nuovamente ai danni di Djokovic – l’uno-due a Shanghai – dove regola prima Federer, poi Ferrer – e un successo a Toronto, dove ad abbassare il capo è stato nuovamente l’elvetico. A bollarlo come “ultimo tra i primi” saranno però le due finali all’Australian Open – sconfitto un anno da Federer e l’anno dopo da Djokovic -, e altre quattro semifinali slam; due a Wimbledon e una al Roland Garros e all’US Open; con Rafael Nadal sempre pronto a indossare gli abiti del guastafeste.

Nonostante l’arrivo di Ivan Lendl e un’attitudine più aggressiva, anche i primi sei mesi del 2012 parvero confermare la tendenza che voleva Murray essere l’eterno quarto dei fab four. Battuto da Novak Djokovic tanto nella semifinale dell’Australian Open quanto nel match cruciale di Miami; a infrangere i sogni di gloria del britannico a Wimbledon spetterà invece a Roger Federer. Eppure, nel tennis, tutto può cambiare, in nemmeno un mese. E fu così che, archiviate le lacrime versate l’8 luglio durante la premiazione dei Championship, il 5 agosto 2012, sempre sul Centre Court, Andy Murray si proclama eroe dei Giochi Olimpici conquistando un oro in singolare e un argento nel doppio misto, in coppia con Laura Robson. Non finirà lì, anzi, il 10 settembre batte nella finale dell’US Open il detentore del titolo Novak Djokovic per 7-6(10) 7-5 2-6 3-6 6-2; dimostrando al mondo di essere in grado di poter fare la voce grossa anche in uno slam. Il riscatto definitivo avviene il 7 luglio 2013 quando Andy riesce a spezzare il maleficio che impediva a un britannico incapace di alzare la coppa di Wimbledon da 77 anni. Finalmente entrato nel cuore del Regno Unito, la schiena del nuovo idolo chiede però il conto ed a fine settembre viene sottoposto a un intervento chirurgico.

Dopo averlo accusato di essere un perdente, di essere un rinunciatario, di aver mischiato la tigna da piccolo lord con la ripetitiva dottrina spagnola, per dar vita ad un gioco uggioso, in contrasto con alcune variazioni che eppure a sprazzi sarebbero in grado di illuminare i suoi schemi; dopo essere stato piantato di punto in bianco da Ivan Lendl, in molti arriveranno a considerare Andy Murray persino finito”. Certo, il ritorno ai vertici è stato un processo laborioso, denso di incertezze e attraversato da molteplici difficoltà. Andy però, ha affrontato questa nuova sfida con coraggio, a testa alta. A partire dalla scelta del nuovo coach, una donna, Amelie Mauresmo; lo scozzese ha dimostrato di che pasta è fatto, dimostrandosi incurante nei confronti delle critiche, senza vergognarsi delle proprie debolezze, come quando in occasione dei quarti al torneo di Miami, sul 6-5 in proprio favore Novak Djokovic fece invasione di campo proprio sotto agli occhi del giudice di sedia, il quale però non punì il serbo generando le proteste di Andy che, sentendosi ferito al cospetto della mancata ammissione dell’errore da parte dell’avversario, staccò letteralmente la spina dal match.

Un episodio al limite dell’infantile, forse, eppure Andy Murray è ripartito da lì: dalla sua umanità, dalla sua voglia di dimostrarsi un giocatore migliore, un uomo migliore di quanto fosse prima. Nell’arco del 2014 timbrerà il cartellino della semifinale al Roland Garros e dei quarti negli altri slam, ma saranno due successi in altrettante tornei verso fine anno a ridonargli quella carica, quella fiducia di cui aveva bisogno: sia all’ATP 250 di Shenzhen che all’ATP 500 di Valencia annulla cinque match point, sempre a Tommy Robredo, per andare a vincere due battaglie snervanti.

Nel 2015, eccetto in quel di Montreal, Andy Murray continua a soffrire ogni qualvolta incontra Djkovic; contro cui perde le finali dell’Australian Open, del Roland Garros, di Miami e Parigi Bercy, oltre alle semifinali di Indian Wells e Shanghai. Deludenti saranno anche la semifinale a Wimbledon – schiacciato da un Federer versione deluxe – e gli ottavi all’US Open – dove si fa sorprendere da Kevin Anderson; di cui invece si era sbarazzato senza patemi a fine giugno, in occasione del suo quarto sigillo sull’erba del Queens. Di estremo valore saranno invece il suo primo urrà su terra battuta, quando a Madrid distrugge in finale Nadal e la leggendaria vittoria in Coppa Davis, con 11 vittorie su 11 incontri disputati, giocando tutti gli otto singolari e raggiungendo il record detenuto dai soli John McEnroe e Mats Wilander.

Concluso l’anno da n.1 del ranking, il 2016 si rivelerà come la stagione capolavoro di Andy Murray. Vista sfumare la quinta finale slam nel continente aussie, Andy ha rimediato batoste sia nel deserto di Indian Wells che a Miami, per quindi scaldare i motori tra Montecarlo e Madrid – dove si arresta in semifinale e in finale-, incoronarsi re di Roma – ammansendo in successione Nadal e Djokovic – disputare la finale al Roland Garros – dove alza bandiera bianca al cospetto di Djokovic dopo aver condotto per due set a zero – e da lì mettere a segno una triplette da sogno: scritto il proprio nome per la quinta volta nell’albo d’oro del Queen’s, Andy Murray riscrive la storia a Wimbledon e trionfa per il secondo anno consecutivo alle Olimpiadi. Gli indugi riscontrati prima a Cincinnati, superato in finale da Cilic, all’US Open, dove si spegne ai quarti contro Nishikori, e nella semifinale di Coppa Davis contro l’Argentina, si dissolveranno in un fiammeggiante finale di stagione che lo vede inarrestabile da Pechino a Shanghai, da Vienna a Parigi-Bercy per arrivare all’apoteosi del Master, sui cui tira la saracinesca da imbattuto, con tanto di vittoria su Novak Djokovic all’ultimo atto.

L’ennesimo traguardo tagliato da Andy Murray durante il 2016 è l’ascesa a n.1 del ranking, datata al 7 novembre. Vi sarebbe rimasto fino al 20 agosto 2017 quando, con un solo torneo vinto all’attivo – il 45esimo a Dubai – una finale persa a Doha – dove si piega al solito Djokovic – e una semifinale azzannata a Parigi, dopo essere crollato al quinto set contro Sam Querrey ai quarti di Wimbledon decide di fermarsi per lasciar riposare quell’anca malandata finché, a inizio gennaio 2018, decide di sottoporsi a un intervento chirurgico; lasciando il mondo del tennis in attesa. Rientra a distanza di un anno, in occasione dell’Australian Open, ma soffre. Il 29 gennaio 2019 comunica di essersi sottoposto a Londra a un secondo intervento di rivestimento dell’anca e di aver così evitata la più complessa sostituzione della stessa. Dieci mesi dopo vince il suo 46esimo titolo in carriera battendo nella finale di Anversa Stan Wawrinka.

Nel tempo Andy Murray si è rivelato molto di più che un campione: convolato a nozze con la storica fidanzata Kim Sears, papà di due bambine, sempre pronto a battersi per sostenere i diritti delle donne, Andy nutre una passione infinita per gli animali e considerai i suoi due border terrier, Rusty e Maggie, «importanti quanto le altre persone della mia famiglia».

Dotato di una eccezionale mobilità, su cui fa leva una velocità di piedi fuori dall’ordinario, preso singolarmente il miglior colpo del britannico è senza dubbio il rovescio. Ciò che lo ha reso un campione tanto incisivo quanto sofisticato è stata però la combinazione di una serie di ingredienti: dalla prima di servizio che spesso sfora i 200 km/h alla precisione e profondità che riesce a trovare in fase di risposta, al pressing che in certi frangenti è in grado di esercitare basandosi non tanto sulla velocità di palla quanto sulla capacità leggere in anticipo le intenzioni dell’avversario.  L’aspetto più temibile messo in atto da Andy Murray è da sempre l’intuito nel convertire situazioni difensive in offensive; eppure il talento, l’estro – a volte sacrificato nel nome di una passività esasperata quanto lusinghiera – che scorre nelle vene dello scozzese lo rende un giocatore a tutto campo, capace di pregevoli variazioni di ritmo, di attacchi in contro tempo e di conclusioni superlative, siano esse con raffinati drop shot o volée che ne denotano tutta la classe che gli scorre nelle vene.

Al tempo stesso, le sfaccettature dell’uomo-Andy sono forse ancora maggiori rispetto alle variabili che si intersecano con la completezza tecnico-tattica del giocatore-Murray. I difetti caratteriali che emergono in campo, i soliloqui, gli sbandamenti, le fragilità che lo fanno deragliare, sbraitare, impedendogli di giocare come saprebbe, di vincere quanto potrebbe; tutto ciò svanisce nella vita di tutti i giorni dove a farsi largo c’è ancora tanto di quel ragazzino timido e un po’ impacciato che, nel 2004, prima di ritirare un premio giovanile della BBC rimase accidentalmente chiuso nel bagno della sua camera da cui uscì appena in tempo per la premiazione.

Andy Murray è il predestinato a cui gli dei del tennis hanno offerto in dono un talento immenso, tanto nel braccio quanto nelle gambe, ma non nella mente; sin dagli esordi scalfita da un’emotività, da una serie di insicurezze, al limite dell’ingestibile. Inglese nella vittoria, come scozzese nella sconfitta, è sceso in campo facendo valere la propria condizione di uomo e forse per questo Federer, Nadal e Djokovic, sono sempre apparsi al suo cospetto, come alieni provenienti da un altro pianeta. Da uomo e con tutte le sublimi carenze e imperfezioni di cui è impregnato l’animo umano Andy Murray ha perso. Da uomo e con tutte le commoventi grandezze e contraddizioni che rendono indimenticabili le gesta degli esseri umani, Andy Murray ha vinto. Qualsiasi futuro lo attenda, il passato ha già messo la sua sentenza: alla storia questo inglese, o scozzese che sia, appartiene già. E la storia narra le imprese del primo essere umano che riuscì a sconfiggere gli alieni.