La tragedia di essere Mark Rothko

«La gente che davanti ai miei dipinti piange compie la stessa esperienza religiosa che io compio quando li dipingo». Atmosfere immateriali, contraddistinte da composizioni di colori rettangolari, sfumati in cui prevale l’assenza di un soggetto identificabile. Il mito di Mark Rothko inizia da questo principio per quindi immergersi in un viaggio oltre i confini della vista, quasi i suoi colori potessero avvolgere l’osservatore rivelandogli segreti inconfessabili, emozioni assolute. Un linguaggio astratto solo apparentemente, perché nei dipinti di Rothko c’è il dramma, l’illusione, l’intimità, il miraggio, la consapevolezza, la tragedia della vita.

Markus Rotkowičs, noto come Mark Rothko è nato il 25 settembre del 1903 a Dvinsk, attualmente una città della Lettonia ribattezzata Daugavpils, ma allora parte dell’impero russo. Quarto figlio di una famiglia ebraica osservante, dopo aver frequentato una scuola talmudica fino al 1913, è emigrato a Portland, in Oregon, insieme ai genitori e ai suoi fratelli a causa dei pogrom, termine che significa letteralmente devastazione e indica le sommosse intraprese contro le minoranze religiose, in particolare antisemite

Taciturno e introverso di indole, il giovane Markus non riesce ad accettare quello sradicamento al punto da confidare in futuro che negli Stati Uniti mai si è sentito a casa sua. Seppure la perdita del padre, datata 1914 a causa di un tumore all’intestino, viene parzialmente rimpiazzata dalla vicinanza della comunità ebraica che lo appoggia nell’ingresso all’Università di Yale; Markus non è un ragazzo accomodante e disgustato dalle élite che predominano l’ambiente scolastico, abbandona il Connecticut senza essersi laureato. Gli anni ’20 abbracciano un periodo da errante che lo vedono dividersi tra umili lavori utili per la sussistenza e corsi di pittura in diverse scuole d’arte newyorchesi compresa la Art Students League. Decisivo per Rothko diviene l’incontro con   Milton Avery; il quale lo invita a esporre con gli altri artisti del suo gruppo presso una collettiva alle Opportunity Galleries.

Markus non ottiene il successo, ma trova la propria strada. Tornato a Portland, nel 1932 sposa una disegnatrice di gioielli, tale Edith Sachar, mentre l’anno successivo organizza la sua prima personale a cui sarebbe seguita un’altra mostra a New York, presso la Contemporary Arts Gallery. Nel 1935 fu uno dei fondatori di The Ten,  un gruppo di avanguardia concentrato sulle ricerche nell’ambito dell’astrazione che critica apertamente le gallerie d’arte americane, giudicandole troppo tradizionaliste. Al tempo stesso dipinse su cavalletto per il Federal Art Project per quindi sviluppare uno stile dal contenuto mitologico, espresso tramite un linguaggio artistico primitivo.

Naturalizzato nel 1938, Marcus Rothkowitz diventa Mark Rothko nel 1940. I grandi venti dell’arte però lo ignorano. Divenuto professore di disegno al Brooklyn Jewish Center Academy – cattedra che occuperà fino al 1952 -, Mark continua a lavorare alle proprie opere abbandonando strada facendo l’arte figurativa per dedicarsi all’espressione astratta. Fu la chiave di volta. Supportato da Peggy Guggenheim, intorno al 1945 poté allestire una personale alla galleria Art of This Century di New York. Considerato ormai, insieme a  Barnett Newman, Clyfford Still e Jackson Pollock, uno dei “quattro cavalieri dell’apocalisse”; due anni dopo espose quei “Multiforms paintings” destinati a essere riconosciuti come capolavori universali.

Ne conseguì un’ascesa planetaria. Non solo divenne impossibile negare la genialità assoluta che attraversa i suoi colori; quelle emozioni di base, così pulsanti, così umane e fondamentali, emersero nel pieno della loro emotività disperata, rivelandosi evocazioni enigmatiche, ma al tempo stesso comprensibili. L’esposizione al MOMA di New York, poi all’Art Institute di Chicago, così come l’avvento di un gallerista quale Sidney Janis gli garantirono l’ingresso nell’Olimpo dell’arte. Negli anni ’50 piovvero anche i primi grandi guadagni, evento che Mark non visse positivamente come sottolinea negli anni a venire la critica Katharine Kuh affermando che «Più conosceva il successo, più si sentiva minacciato dai mali che egli stesso aveva denunciato. Questo conflitto con il denaro fece di lui un uomo deluso, fragile e con profondi sensi di colpa»

Non solo. Mark Rothko iniziò a soffrire di depressione, di alcolismo e più gli anni passavano più tendeva a dimostrarsi intollerante verso le persone che aveva vicino. Nonostante le seconde nozze con la giovanissima illustratrice Mary Alice Beistle – che lo venerava letteralmente – e due figli nati nell’arco di tredici anni, Kate nel 1950 e Christopher nel 1963, quell’uomo senza patria e senza pace si ripiegò in una esasperata solitudine da condividere esclusivamente insieme alla propria arte

Quando nel 1958 Ludwig Mies van der Rohe gli commissionò di dipingere una serie di murales per il ristorante Four Seasons su Park Avenue di New York, Rothko accettò immaginando dei grandi affreschi che avrebbero dovuto costruire un’immagine ferma, unita e armoniosa. Vi lavorò con dedizione per oltre un anno finché una sera rimase immobile per oltre un’ora a fissare ciò che aveva concepito fino a quel giorno e vedere le sue pitture come sfondo a una sala da pranzo, lo angosciò al punto da rimborsare l’enorme anticipo ricevuto e annullare l’operazione presentando i dipinti al MOMA nel 1961 ed infine farli giungere alla Tate Gallery di Londra.

Afflitto da vere e proprie manie di persecuzione, Mark Rothko rifiutò la notorietà e nel limite del possibile tentò di sottrarsi alle attenzioni del mercato, dei collezionisti, degli adulatori. Solo John e Dominique de Menil – fondatori del Menil Collection – riuscirono ad assicurarsi la sua fiducia. Fu così che nel 1964 Mark Rothko accettò di dar vita a uno spazio per la meditazione adornato da suoi dipinti a Houston, in Texas. Affidata a Rothko licenza creativa per la progettazione dell’edificio, questi si scontrò con il progetto originale dell’architetto Philip Johnson. I piani conobbero inevitabilmente svariate revisioni e l’avvicendarsi di più architetti dato che Rothko lavorò prima con Howard Barnstone, poi con Eugene Aubry. 

Con il senno di poi lo spazio interno assolve non solo il compito di cappella, ma costituisce altresì un’importante opera d’arte moderna. La forma dell’edificio, un ottagono iscritto in una croce greca, e il suo design sono stati ampiamente influenzati dall’artista. Alle sue pareti vi sono 14 dipinti neri, con sfumature, realizzati da Rothko. Tre delle pareti contengono dei trittici, mentre le altre cinque ospitano dipinti singoli. La Cappella, diventata il primo centro del mondo ampiamente ecumenico, un vero e proprio luogo sacro aperto a tutte le religioni, ma che non appartiene a nessuna; venne ultimata nel 1971 e Mark Rothko non visse a sufficienza per vedere ultimato questo suo ennesimo capolavoro

Risale al dicembre del 1969 la sua ultima apparizione pubblica, seppure riservata a pochi intimi. Avvenne in occasione di un party organizzato nel suo studio newyorkese per presentare i suoi ultimi dipinti della serie “Black on Grey”. Gli invitati lo ricordano sempre seduto in disparte, silenzioso e assorto nei suoi pensieri. Per tutto il tempo risuonò il Requiem di Mozart. Scambiò qualche parola solo con Katharine Kuh, al momento dei saluti alla quale disse: «Starebbero tutti meglio se io uscissi dalle loro vite».

Logorato nell’animo, nel primissimo mattino del 25 febbraio 1970 Mark Rothko si suicidò nel suo studio sulla 69esima Strada di New York, recidendosi le vene e l’arteria del braccio destro ed intossicandosi con due flaconi di idrato di cloralio. A trovare il corpo fu il suo giovane assistente, Oliver Steindecker. Erano appena le nove del mattino quando lo trovò in una pozza di sangue di fronte al lavandino e con accanto una lama da rasoio a doppio taglio. Furono contattati prima lo psichiatra dell’artista, poi il suo cardiologo: quest’ultimo dopo aver esaminato il cadavere, ritenne che fosse deceduto da almeno sei-otto ore. 

Due giorni dopo si tennero i funerali a cui partecipò tutto il gotha dell’arte. Sei mesi dopo l’inconsolabile compagna morì d’infarto a soli quarantotto anni lasciando una figlia appena maggiorenne e un figlio di 7 anni. Ai suoi di funerali presero parte meno di dieci persone. Senza più Mary Alice Beistle, con Kate ancora troppo giovane per sapersi districare in un mondo di squali e avvoltoio, la determinazione dell’eredità di Rothko divenne il soggetto di un famoso caso giudiziario.

Nel frattempo l’Università di Yale, colpevole un tempo di averlo emarginato fino a fargli abbandonare gli studi, si affrettò a conferirgli la laurea honoris causa. Nel 2003, in occasione del centesimo anniversario della nascita, la famiglia dell’artista decise di concedere in sua memoria un contributo finanziario per il restauro della sinagoga Kaddish di Daugavpils, sua città natale in Lettonia. I lavori iniziarono nel 2003 e durarono tre anni, riportando l’edificio alla sua forma originaria. La cerimonia di riapertura, l’11 aprile 2006, avvenne alla presenza del Presidente della Lettonia Vaira Vīķe-Freiberga, delle autorità civili e religiose della città e della figlia dell’artista, Kate Rothko.

La fortuna di critica e di pubblico di Rothko è cresciuta senza sosta sino a farlo divenire negli anni 2000 uno degli artisti più costosi al mondo. Un suo quadro, “White Center – Yellow, Pink and Lavender on Rose “ è stato venduto nel maggio 2007 da Sotheby’s di New York per la cifra record di 72,84 milioni di dollari, andando più che a triplicare il precedente record dell’artista, stabilito nel novembre 2005 da Christie’s di New York con “Homage to Matisse” venduto per 22,41 milioni di dollari. Nel 2014 “No. 6 – Violet, Green and Red“ superò tutti i record venendo acquistata dal magnate russo Dmitrij Rybolovlev per 186 milioni di dollari, la terza cifra più alta mai pagata per un dipinto finora.

Dove non vi è posto per quotazioni e numeri è la Cappella Rothko. Ultima traccia palpabile della tragica vita di un artista ineguagliabile, scintilla primordiale di un presagio destinato a prendere forma quasi non vi fosse possibilità di salvezza terrena; un luogo simbolo di preghiera spirituale, dove nulla viene percepito come caduco, ma si è semmai pervasi da una sottile persuasione di eternità. Il libro dei visitatori posto all’entrata conserva testimonianze di lacrime, di perdono, di prese di coscienza, di speranze. Pare che molti siano assaliti da un devastante desiderio di immobilità fisica che contrasta in modo quasi soprannaturale con un viaggio che ha come meta i meandri del proprio inconscio. A testimonianza di come dentro all’immensità dei colori di Mark Rothko anche il tempo si annullasse.

One comment

  1. Patrizia Danti

    Non conoscevo la storia incredibilmente dolorosa (come può essere il male oscuro,la mancanza di autostima) di Mark Rothko ti sono grata per questo bellissimo racconto che ha allargato la mia conoscenza storica ed artistica
    Grazie mille ❤️

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