Diane Arbus, she come to them

«She come to them». Con questa frase la critica riassume lo stile di Diane Arbus. «Lei andava da loro», perché non era la scena a doversi adeguare alle esigenze della macchina fotografica, bensì era quest’ultima a dover sottostare alla complessità dei soggetti fissati. E loro, i soggetti, non erano normali non comunicavano nulla di rassicurante. Erano freaks, mostri, oppure disadattati, individui incapaci o impossibilitati ad appartenere per intero al mondo reale, alle sue convenzioni, alle sue ipocrisie. Per questo lei andava da loro, per questo sarebbe diventata la fotografa dei mostri. E per farlo ha dovuto attingere, ha dovuto dissanguare la propria immensa poetica visiva; laddove partecipazione e distacco, debolezza e violenza, curiosità e paura, ordinario e deforme, speranza e rassegnazione, domande e risposte si mescolano al punto da abolire i contorni di tutto. Ciò che resta è molto di più, per quanto inafferrabile: una agognata ma allo stesso tempo irrealizzabile resurrezione.

Diane Nemerov nasce a New York il 14 marzo del 1923. Rampolla di  una ricca famiglia ebrea di origine polacca, i genitori David Nemerov e Gertrude Russek sono proprietari della catena di Grandi Magazzini ‘Russek’s’. Diane è seconda di tre figli; tutti destinati a sfondare in un qualche ambito artistico: se Howard verrà considerato uno dei principali poeti statunitensi del ‘900, René si affermerà come scultrice.

Cresciuta fra gli agi ed onnipresenti bambinaie, nel 1930 frequenta prima la “Culture Ethical School” poi la “Fieldstone School”; Istituti i cui metodi attribuivano un ruolo primario al “nutrimento spirituale della creatività”. Il suo talento artistico ha così modo di manifestarsi precocemente, incoraggiato dal padre che la manda appena dodicenne a lezione di disegno da Dorothy Thompson, un’illustratrice che era stata allieva di George Grosz. La grottesca quanto spietata esposizione delle debolezze umane che il pittore tedesco denunciava nelle sue opere troveranno terreno fertile nella fervida immaginazione di una giovane Diane che, appena quattordicenne, conosce Allan Arbus, di cinque anni più grande, all’epoca commesso da Russek’s. Il rapporto non è ben visto dalla famiglia Nemerov ma lei lo sposa ugualmente appena compiuti i diciotto anni, il 10 aprile del 1941. Dalla loro unione nasceranno due figlie: Doon ed Amy.

È il marito ad introdurla nel mondo della fotografia. Il primo lavoro dei giovani sposi è un servizio fotografico pubblicitario per i Grandi Magazzini Russek’s ma, incoraggiati dell’esperienza maturata da Allan come fotografo mentre ha prestato servizio nell’esercito, lo studio Diane & Allan Arbus si fa strada nel campo della moda doveo scatti per Vogue, Harper’s Bazaar e Glamour. Per una quindicina d’anni Diane si limita a fare da assistente al marito finché, già madre di Doon, nata nel 1945, e Amy, classe 1954, quel ruolo inizia ad andarle stretto. Nel 1957 lascia quindi lo studio per dedicarsi a  «una ricerca più personale». Al divorzio artistico segue, due anni dopo, la fine del matrimonio.

Sono gli anni in cui la Beat Generation ha il proprio fulcro nel Greenwich Village ed è in questo periodo che Diane incontra personaggi quali Robert Frank, Louis Faurer e Stanley Kubrick. Decisa a trovare la propria strada, Diane si iscrive a un seminario di Alexey Brodovitch ma, sentendolo troppo distante dalla propria sensibilità, inizia a frequentare alla New School le lezioni di Lisette Model. E sarà proprio la Model a esercitare su Diane un’influenza determinante spingendola ad immortalare «ciò che non ha mai fotografato e di cui ha paura».

Al che Diane inizia ad esplorare luoghi, fisici quanto mentali, che si era sempre preclusa perché frenata della rigida educazione ricevuta. Attraversa i sobborghi poveri e malfamati, assiste agli spettacoli legati al travestitismo, ‘occa con mano povertà e miserie morali e, dopo aver visto più volte la pellicola di Tod Browning, “Freaks”, trova il centro del proprio universo visivo nell’inquietante attrazione che sente verso il diverso, i freaks, i mostri, per l’appunto. Ossessivamente affascinata da questa dimensione  tenebrosa, enigmatica, frequenta il Museo di mostri Hubert e i suoi spettacoli da baraccone, incontra i protagonisti, li fotografa in privato.

È l’inizio di una indagine volta ad esplorare una sorta di mondo parallelo a quello della riconosciuta normalità, che la porta a muoversi fra nani, giganti, travestiti, omosessuali, ritardati mentali e gemelli, ma anche gente comune catturata in atteggiamenti inusuali, insensati.

Diane Arbus immortala un gigante ebreo con i suoi genitori nella loro casa del Bronx, a New York.

Se fino al 1962 utilizza quasi esclusivamente una Nikon 35 mm, viene il giorno in cui si affida a un medio formato 6×6 cm, tramite una Rolleyflex Biottica o una Mamiya C33, sempre biottica ma dotata di un flash elettronico.  Durante gli ultimi due anni di lavoro adopera invece una Pentax 6×7. In ogni circostanza, le fotografie scattate con il flash di schiarita diventeranno un suo marchio di fabbrica. Ma per quanto attenta alla tecnica, il mondo buio in cui va a scovare i suoi soggetti rappresenterà per sempre il cuore pulsante della sua produzione fotografica.

«C’è sempre una differenza tra quel che vogliamo si sappia di noi e quello che non possiamo evitare si sappia di noi; è la distanza tra l’intenzione e l’effetto»; sostiene Diane. Rispettosa fino all’inverosimile dei mostri  e delle situazioni mostruose in cui si imbatte, inevitabilmente la sensibilità di Diane Arbus ha finito con l’infiltrarsi, con il precipitare nell’oscurità che governa il regno dei suoi soggetti.

Per combattere le frequenti crisi depressive che la attanagliano, Diane si è affidata ad una sola medicina: il lavoro. Fino ad affogare in esso. Il 26 luglio 1971, Diane Arbus si toglie la vita ingerendo una forte dose di barbiturici e incidendosi le vene dei polsi. L’anno dopo la sua morte il MOMA le dedica una vasta quanto dettagliata retrospettiva, e diventa la prima fra i fotografi americani ad essere ospitata dalla Biennale di Venezia.

«Una fotografia è un segreto che parla di un segreto. Più essa racconta, meno è possibile conoscere». Più che tra meandri di mondo proibito, Diane Airbus ha esplorato, si è immersa, in un mondo proibitivo. Un mondo semplice da catalogare, da giudicare, ma impossibile da comprendere, almeno apparentemente. Spicciativamente definita la fotografa dei mostri, Diane Arbus ha scoperto il segreto più sinistro che possa essere svelato, ossia che il mondo dei freaks, dei mostri, è forse meno ripugnante, meno equivoco, meno ingannevole del mondo reale, quello abitato dei cosiddetti normali. Non ne è più emersa. Non era un mostro, Diane, ma non era neppure normale. E a questo limbo senza confini è rimasta appesa, sospesa, in attesa di un miraggio, di una profezia che non si è mai avverata.

Una delle fotografie più emblematiche di Diane Arbus scattate a New York
Una delle fotografie più emblematiche di Diane Arbus. Venne scattata a New York.