Raffaello, il Messia dell’arte

«Qui giace Raffaello, dal quale fin che visse la Natura temette di esser vinta; e quando morì temette di morire insieme a lui». 

Raffaello. L’emblema della completezza artistica capace di fondere natura e grazia nel culto della bellezza ideale, armonica, assoluta. Raffaello. Il talento precoce, raffinato e drammatico, proteso a imporre nuovi limiti alla perfezione, il genio sacrificale, instancabile nel lavoro al punto da dipingere anche nel sonno, anche nei sogni, suoi e dell’umanità. Raffaello. L’uomo divenuto “divinonella morte tanto da spingere i contemporanei a paragonarlo a una reincarnazione di Cristo in quanto come lui era morto di Venerdì Santo.

Raffaello Sanzio nasce a Urbino «l’anno 1483, in Venerdì Santo, alle 3 di notte, da un tale Giovanni de’ Santi, pittore non meno eccellente, ma sì bene uomo di buono ingegno, e atto a indirizzare i figli per quella buona via, che a lui, per mala fortuna sua, non era stata mostrata nella sua bellissima gioventù». Il Venerdì Santo del 1483 corrisponde, come sottolinea il Vasari, al giorno 28 marzo. Tuttavia esiste un’altra versione secondo la quale il giorno di nascita di Raffaello sarebbe il 6 aprile. A sostenere ciò è una missiva di Marcantonio Michiel ad Antionio Marisilio – che attesta come la data del giorno e dell’ora di morte di Raffaello, apparentemente coincidente con quella di Cristoore 3 del 6 aprile -, corrispondano esattamente con la data della sua nascita. Se questa discordanza tra le fonti contribuì a incrementare lo status di leggenda di questo artista che immortale lo era divenuto già in vita; non da meno furono le sue origini. Primo e unico figlio di Giovanni Santi e di Magia di Battista di Nicola Ciarla; il cognome “Sanzio” con cui è noto è una delle possibili declinazioni di “Santi” derivata dal latino “Sancti”, con cui Raffaello sarà poi solito, nella maturità, firmare le sue opere. 

La formazione di Raffaello fu senza dubbio influenzata dall’essere nativo di Urbino; in quel periodo un centro artistico di primaria importanza che irradiava gli ideali del Rinascimento. Artisticamente cresciuto nella bottega del padre, fu lì che un Raffaello ancora bambino apprese le nozioni di base delle tecniche artistiche, tra cui anche i segreti dell’affresco. I primi undici anni di vita di Raffaello furono segnati da due lutti atroci: la madre morì il 7 ottobre 1491, mentre il 1 agosto del 1494 il padre lo lasciò solo, insieme alla seconda moglie Berardina di Piero di Parte e la sorellastra Elisabetta; in seguito cause di svariati problemi legali per motivi legati puramente al vil denaro. 

Seppure dai saggi del Vasari è possibile apprendere che Raffaello  sarebbe giunto alla bottega del Perugino ancor prima della morte dei genitori; le prime tracce della sua presenza accanto al rinomato maestro sono legate ad alcuni lavori databili tra il 1497 e il nuovo secolo. In particolare, viene dato per certo un intervento di Raffaello nella tavoletta della “Natività della Madonna” nella predella della “Pala di Fano” e in alcune figure degli affreschi del Collegio del Cambio a Perugia; soprattutto dove le masse di colore assumono un valore plastico ed è accentuato il modo di delimitare le parti in luce e quelle in ombra, con un generale ispessimento dei contorni. 

La prima opera cui possa darsi un reale credito attributivo a Raffaello pare comunque essere la “Madonna col Bambino“, raffinatissima pittura murale realizzata nel 1498 nella stanza in cui si ritiene abbia visto la luce. Certo è inoltre che l’anno dopo, un Raffaello sedicenne si trasferì a Città di Castello dove ricevette la sua prima commissione indipendente: lo “stendardo della Santissima Trinità” per una confraternita locale che voleva offrire un’opera devozionale in segno di ringraziamento per la fine di una pestilenza, avvenuta proprio quell’anno. L’opera, sebbene ancora legata agli echi di Perugino, presenta anche una profonda, innovativa freschezza, che gli garantì fama immediata presso la fiorente committenza locale, non essendo reperibili in città altri pittori di pregio dopo la partenza di Signorelli proprio nel 1499 alla volta di Orvieto. Fu così che il 10 dicembre 1500, Raffaello ed Evangelista da Pian di Meleto ottennero dalle monache del monastero di Sant’Agostino un nuovo incarico, che è il primo documentato della carriera dell’artista, la “Pala del beato Nicola da Tolentino”, terminata il 13 settembre 1501 e oggi dispersa in più musei dopo che venne sezionata in seguito a un terremoto nel 1789.  Non solo, a Città di Castello l’artista lasciò almeno altre due opere di rilievo, la “Crocifissione Gavari” e lo “Sposalizio della Vergine“. 

Madonna Sistina – 1513 / 1514 – Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda

Nel frattempo la fama di Raffaello cominciava ad allargarsi a tutta l’Umbria, facendone uno dei più richiesti pittori attivi in regione.  Nella sola Perugia, negli anni tra il 1501 e il 1505, gli vennero commissionate ben tre pale d’altare: la “Pala Colonna” per la chiesa delle monache di Sant’Antonio, la “Pala degli Oddi” per San Francesco al Prato e una “Assunzione della Vergine” per le clarisse di Monteluce mai portata a termine, dipinta poi da Berto di Giovanni. Di una bellezza altrettanto sconcertante è poi la “Resurrezione”; attualmente esposta al Museo dell’Arte a San Paolo del Brasile. Allo stesso periodo sono riferibili alcune “Madonne col Bambino” che, sebbene ancora ancorate all’esempio di Perugino, preludono già all’intenso e delicato rapporto tra madre e figlio dei più importanti capolavori successivi legati a questo tema. Tra queste spiccano “Madonna Solly“, la “Madonna Diotallevi“, la “Madonna col Bambino tra i santi Girolamo e Francesco”. Verso il 1503 l’artista dovette quindi intraprendere una serie di brevi viaggi che lo portarono ai primi contatti con importanti realtà artistiche. Se a Roma assistette alla consacrazione di Giulio II per poi realizzare due opere figurative classiche quali “Tre Grazie” e il “Sogno del cavaliere”; a Siena aiutò l’amico Pinturicchio, ben più anziano e in pieno declino, a preparare i cartoni per gli affreschi della Libreria Piccolomini, di cui restano due splendidi esemplari agli Uffizi, di incomparabile grazia ed eleganza rispetto al risultato finale. Al medesimo periodo risalgono anche gli affreschi della Cappella Baglioni a Spello. Non è chiaro quante di queste composizioni furono effettivamente disegnate da Raffaello, ma quasi sicuramente è di mano del Sanzio il cartone con la “Partenza di Enea Silvio Piccolomini per Basilea” oggi al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe di Firenze.

L’opera che conclude la fase giovanile, segnando un distacco ormai incolmabile con i modi del maestro Perugino, è lo “Sposalizio della Vergine“, datato 1504 e già conservato nella cappella Albizzini della chiesa di San Francesco di Città di Castello. Non passò molto tempo che l’artista riuscì a garantirsi commissioni da alcuni facoltosi cittadini come Lorenzo Nasi, per cui dipinse la “Madonna del Cardellino“, suo cognato Domenico Canigiani per il quale fece la “Sacra Famiglia Canigiani” e la famiglia Tempi come si evince dalla “Madonna Tempi”. Nel clima artistico fiorentino venne gratificato dalla stima di Taddeo Taddei, il quale lo volle sempre in casa sua e alla sua tavola e per cui nel 1506 diede vita alla “Madonna del Prato” e alla “Madonna Bridgewater“.

Non va comunque dimenticato che da Urbino continuarono a piovere incarichi come la “Pala Colonna” per il convento di Sant’Antonio a Perugia, nonché la “Madonna col Bambino e i santi Giovanni Battista e Nicola”, detta “Pala Ansidei”, da collocare in una cappella della chiesa di San Fiorenzo, che fu completata nel 1505, anno in cui sempre a Perugia firmò l’affresco “Trinità e Santi” nella chiesa del monastero di San Severo. Nel 1505-1506 Raffaello giunse brevemente a Urbino, dove venne accolto alla corte di Guidobaldo da Montefeltro. La fama raggiunta nella sua città natale è testimoniata da una menzione nel “Cortegiano” di Baldassarre Castiglione e da un serie di ritratti, tra cui quello di Guidobaldo, di Elisabetta Gonzaga sua consorte e dell’erede designato del ducato Guidobaldo della Rovere. Per il duca inoltre dipinse una grande Madonna e tre tavolette di soggetto simile, “San Michele e il drago“, un “San Giorgio e il drago” il primo attualmente a Parigi ed il secondo a Washington. 

Per famiglie fiorentine della borghesia medio-alta Raffaello dipinse alcuni capolavori assoluti, come alcuni gruppi di Madonne a tutta figura col Bambino e San Giovannino: la “Bella giardiniera“, la “Madonna del Cardellino” e la “Madonna del Belvedere“. In queste opere la figura della Vergine si erge monumentale davanti al paesaggio, dominandolo con leggiadria ed eleganza, mentre rivolge gesti affettuosi ai bambini, in strutture compositive piramidali di grande efficacia. Gesti familiari si riscontrano anche in opere come la “Madonna d’Orleans“, come quello di solleticare, o spontanei come nella “Grande Madonna Cowper”, o ancora sguardi intensi come nella “Madonna Bridgewater”. Al periodo fiorentino appartengono infine alcuni ritratti nei quali è manifesta l’influenza di Leonardo: la “Donna gravida”, “Agnolo Doni” e “Maddalena Strozzi”, la “Dama col liocorno” e la “Muta”. 

Pala Borghese o Deposizione – 1507 – Galleria Borghese, Roma

Opera cruciale di questa fase è la meravigliosa “Pala Baglioni“, commissionata da Atalanta Baglioni, in commemorazione dei fatti di sangue che avevano portato alla morte di suo figlio Grifonetto, e destinata a un altare nella chiesa di San Francesco al Prato a Perugia, anche se dipinta interamente a Firenze. I numerosi studi pervenutici sull’opera dimostrano un graduale passaggio iconografico per la pala centrale, da un Compianto, ispirato a quello di Perugino nella chiesa di Santa Chiara a Firenze, a una più drammatica “Deposizione nel sepolcro”. In quest’opera Raffaello fuse il senso tragico della morte con il vitale slancio del turbamento, con una composizione estremamente monumentale, drammatica e dinamica. Dipinto conclusivo del periodo fiorentino può considerarsi la “Madonna del Baldacchino”, lasciata incompiuta per la sua repentina chiamata a Roma, da parte di Giulio II: un evento che cambiò radicalmente la sua vita.

In Vaticano affiancò una squadra di pittori provenienti da tutta Italia per la decorazione, da poco avviata, dei nuovi appartamenti papali, le Stanze. Le sue prove nella volta della prima, poi detta “Stanza della Segnatura”, piacquero così tanto al papa che decise di affidargli, fin dal 1509, tutta la decorazione dell’appartamento, a costo anche di distruggere quanto già era stato fatto. Alle pareti Raffaello decorò quattro grandi lunettoni ispirandosi alle quattro facoltà delle università medioevali, ovvero teologia, filosofia, poesia e giurisprudenza, cosa che ha fatto pensare che la stanza fosse originariamente destinata a biblioteca o studiolo. Opere celeberrime sono la “Disputa del Sacramento“, la “Scuola di Atene” o il “Parnaso“. Nel 1511, mentre i lavori alla “Stanza della Segnatura” andavano esaurendosi, il papa tornava da una disastrosa guerra contro i francesi, che gli era costata la perdita di Bologna e la tanto temuta presenza di eserciti stranieri in Italia, nonché un forte spreco di risorse finanziarie. 

Il programma decorativo della successiva stanza, destinata a sala delle Udienze e poi detta di Eliodoro dal nome di uno degli affreschi, tenne conto della particolare situazione politica: venne deciso infatti di realizzare scene legate al superamento delle difficoltà della Chiesa grazie all’intervento divino. Già il primo degli affreschi, la “Cacciata di Eliodoro dal Tempio“, mostra un radicale sviluppo stilistico, con l’adozione di un inedito stile “drammatico”, fatto di azioni concitate, pause e asimmetrie, impensabile nei pur recentissimi affreschi della stanza precedente. Nella “Messa di Bolsena” tornano ritmi pacati, anche se la profondità dell’architettura e gli effetti luminosi creano un’innovativa drammaticità. Di nuovo nel “Incontro di Leone Magno con Attila” ricorrono asimmetrie e azione, mentre nella “Liberazione di San Pietro” si raggiunge il culmine degli studi sulla luce, con una scena in notturna ravvivata dai bagliori lunari e dell’apparizione angelica che libera il primo pontefice dalla prigionia. Merita una citazione a parte lo straordinario “Ritratto di Giulio II”, esposto agli Uffizi e avvalorato da uno stile innovativo, con un punto di vista diagonale e leggermente dall’alto, studiato come se lo spettatore si trovasse in piedi accanto al pontefice. L’atteggiamento di malinconica pensosità, così indicatore della situazione politica dell’epoca, introduce un elemento psicologico fino ad allora estraneo dalla ritrattistica ufficiale. In pratica lo spettatore è come se si trovasse al cospetto del pontefice, senza alcun distacco fisico o psicologico. Non da meno è “Ritratto di cardinale”, ora visibile al Prado”. 

Ritratto di Giulio II – 1511 – National Gallery, Londra

All’inizio del 1513 Giulio II morì, e il suo successore, Leone X, confermò tutti gli incarichi a Raffaello, affidandogliene presto anche di nuovi. Mentre la fama di Raffaello si andava espandendo, nuovi committenti desideravano avvalersi dei suoi servigi, ma solo quelli più influenti alla corte papale poterono riuscire a distoglierlo dai lavori in Vaticano. Tra questi spiccò Agostino Chigi, ricchissimo banchiere di origine senese, che si era fatto costruire in quegli anni la prima e imitatissima villa urbana da Baldassarre Peruzzi, quella poi detta villa Farnesina. Raffaello vi fu chiamato a lavorare a più riprese, prima con l’affresco del “Trionfo di Galatea“, di straordinaria rievocazione classica, poi alla “Loggia di Psiche” e infine alla camera con le Storie di Alessandro, opera incompiuta creata poi dal Sodoma. Inoltre per i Chigi Raffaello eseguì l’affresco delle “Sibille e angeli” in Santa Maria della Pace e soprattutto l’ambizioso progetto della Cappella Chigi.

Raffaello sembra superarsi in bravura con il “Ritratto di Fedra Inghirami” dove un difetto fisico come lo strabismo viene nobilitato dalla perfezione formale dell’opera. Ormai circondato da un alone di perfezione, strabilia il papa quando esegue”Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi”, in cui il pontefice è impegnato nella lettura di un prezioso codice mentre in un intreccio di sguardi e gesti con i cugini cardinali si sonda lo spazio in profondità, calibrandosi su un’estrema armonia. 

Sempre agli stessi anni risale il celeberrimo ritratto di una donna, considerata la musa-amante di Raffello, noto come “La Fornarina“, opera di dolce e immediata sensualità unita a vivida luminosità. Leggenda vuole che mentre passeggia sul lungotevere Raffaello venne rapito dalla bellezza di una giovane che si sta bagnando nelle acque del fiume; tale Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere. Per quanto mai ufficializzata come relazione, questo amore segreto sarebbe proseguito circa per tre anni, fino alla morte dell’artista, a cui la ragazza reagì con uno strazio tale da recludersi nel convento di Sant’Apollonia, dove si spense solo due anni dopo, nel 1522. Il dipinto fu conservato da Raffaello nel proprio studio fino alla morte. Menzionato per la prima volta nella collezione di Caterina Nobili Sforza di Santa Fiora in una lettera del vice cancelliere Corasduz all’imperatore Rodolfo II del 1595, viene descritto come “una donna nuda ritratta dal vivo, mezza figura di Raffaele”. Alla morte della contessa, nel 1605, raggiunge la collezione del genero Giovanni Buoncompagni, duca di Sora, dove è notato da Fabio Chigi che la definisce “non admodum speciosa“. Fu acquistato poi dai Barberini ed è citato nei loro inventari a partire dal 1642. Negli anni ’60-’70 del Novecento venne trasferito per alcuni anni alla Galleria Borghese.

La Fornarina – 1518 / 1520 – Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini

L’altro motivo fondamentale di questa stagione è quello legato alle radicali trasformazioni messe in atto sul tema della pala d’altare, all’insegna di un sempre più profondo coinvolgimento dello spettatore. Già nella “Madonna di Foligno” lo schema tradizionale è avvalorato da un’orchestrazione cromatica che dà unità all’insieme, compreso il vibrante paesaggio sullo sfondo, legato a un evento miracoloso che era stato all’origine della commissione. Il passo decisivo si compì però con la “Madonna Sistina“, dove una tenda scostata e una balaustra fanno da cornice a un’apparizione terrena di Maria, scalza e priva di aureola, ma resa sovrannaturale dall’area luminosa che la circonda. Punto di arrivo è la pala con la “Estasi di santa Cecilia“, interamente giocata su un’impalpabile presenza del divino.

Nonostante gli impegni proseguì la produzione di tavole destinate all’uso privato.  Ad esempio il tema della “Madonna col Bambino” raggiunge il culmine sublime di perfezione geometrica e armonizzazione spontanea e naturale dei sentimenti nella “Madonna della Seggiola“. Figure emblematiche come “La Velata” e “La Fornarina” mostrano un’impareggiabile qualità pittorica e un virtuosismo che non mettono mai in secondo piano la vivida descrizione delle protagoniste. Per far fronte alla sua crescita di popolarità e alla conseguente mole di lavoro richiesto, Raffaello mise su una grande bottega, strutturata come una vera e propria impresa capace di dedicarsi a incarichi sempre più impegnativi e nel minor tempo possibile, garantendo comunque un alto livello qualitativo. 

Nelle Stanze Leone X non fece altro che confermare a Raffaello il ruolo che deteneva in Vaticano. La terza Stanza, poi detta dell’Incendio di Borgo, fu incentrata sulla celebrazione del pontefice in carica attraverso le figure di suoi omonimi predecessori, come Leone III e IV. Le imprese che distolsero il Sanzio dall’esecuzione materiale degli affreschi nella terza Stanza furono essenzialmente la nomina a sovrintendente della Basilica Vaticana dopo la morte di Bramante e quella degli arazzi per la Cappella Sistina. Raffaello, trovandosi a confronto direttamente con i grandi maestri del ‘400 e soprattutto con Michelangelo e la sua sfolgorante volta, dovette aggiornare il proprio stile, adattandosi anche alle difficoltà tecniche dell’impresa che prevedevano la stesura di cartoni rovesciati rispetto al risultato finale.

Incoronazione della Vergine – 1502 / 1503 – Musei Vaticani

Nonostante la velocità e l’efficienza della bottega, la notevole consistenza degli aiuti e l’eccellente organizzazione lavorativa, la fama di Raffaello andava ormai ben oltre le reali possibilità di soddisfare le richieste e molte commissioni dovettero essere a lungo rimandate. Le clarisse di Monteluce di Perugia dovettero aspettare circa vent’anni prima di ottenere una pala con la “Incoronazione della Vergine” commissionata nel 1501-1503 circa e dipinta solo dopo la morte dell’artista da Giulio Romano su disegni appartenenti alla gioventù del maestro. Il cardinale Gregorio Cortesi provò nel 1516 a chiedergli affreschi per il refettorio del convento di San Polidoro a Modena, mentre l’anno successivo Lorenzo duca d’Urbino, nipote del papa, avrebbe voluto che l’artista disegnasse il suo profilo da battere nelle monete del ducato. Isabella d’Este non riuscì mai a ottenere un “quadretto” di mano di Raffaello per il suo studiolo, né vi riuscì suo fratello Alfonso per i camerini d’alabastro: nonostante il versamento di un acconto e le ripetute insistenze degli ambasciatori ferraresi alla corte pontificia – ai quali Raffaello arrivò anche a fingersi impegnato pur di non riceverli -, alla fine il “Trionfo di Bacco” dovette essere dipinto da Tiziano.

Quando Raffaello decise di accettare l’incarico di soprintendente ai lavori nella Basilica Vaticana, il più importante cantiere romano, egli aveva già alle spalle alcune esperienze in questo campo. Già per Agostino Chigi aveva curato le cosiddette “Scuderie” di villa Farnesina e la cappella funeraria in Santa Maria del Popolo. Inoltre aveva atteso alla costruzione della piccola chiesa di Sant’Eligio degli Orefici. Raffaello si dedicò al cantiere di San Pietro con entusiasmo, ma anche con un certo timore, come si legge dal carteggio di quegli anni, per la dimensione dei suoi slanci che vorrebbero eguagliare la perfezione degli antichi. Raffaello progettò poi il palazzo Branconio dell’Aquila per il protonotario apostolico Giovanbattista Branconio dell’Aquila, demolito poi nel 1600 per fare spazio al colonnato del Bernini di fronte a San Pietro. Altri palazzi quasi certamente furono progettati da Raffaello, con l’aiuto della sua bottega, che comprendeva Giulio Romano, sono il Palazzo Jacopo da Brescia e il Palazzo Alberini. A Raffaello è attribuito anche il progetto di Palazzo Pandolfini a Firenze. Un altro progetto, destinato a trovare grande risonanza e sviluppi per tutto il Cinquecento, fu quello incompiuto di Villa Madama alle pendici del Monte Mario. Sotto il pontificato di Leone X, Raffaello ricevette anche l’incarico di custodia e registrazione dei marmi antichi, che lo portò a condurre un attento studio delle vestigia, per esempio esaminando le strutture e gli elementi architettonici del Pantheon come nessuno aveva fatto fino a quel momento.

Nel 1516 il cardinale Giulio de’ Medici organizzò una sorta di competizione tra i due più grandi pittori attivi in Roma, Raffaello e Sebastiano del Piombo, ai quali richiese una pala ciascuno da destinare alla cattedrale di Narbona, la sua sede vescovile. Raffaello lavorò lentamente all’opera in questione, ossia la “Trasfigurazione di Cristo”, tanto che nel momento in cui si ammalò risultava ancora incompleta. 

Considerato una sorta di Messia vivente, quando era ormai in fin di vita, qualcuno decise di portare la sua ultima opera nella stanza dove sarebbe spirato il 6 aprile 1520, a soli 37 anni, nel giorno di Venerdì Santo. Secondo Vasari la morte sopraggiunse dopo quindici giorni di malattia, iniziatasi con una febbre “continua e acuta” e inutilmente curata con ripetuti salassi. La visione di quel capolavoro poco distante dalla salma, autorizzò ogni singola anima anche solo sfiorata dal carisma di Raffaello di divinizzarne la figura. L’artista stesso sembrò avviare quel processo di “glorificazione” scegliendo un aspetto consapevolmente ispirato all’effige del Cristo: i capelli lunghi e lisci scriminati al centro, i modi pacati. La sua scomparsa fu salutata dal commosso cordoglio dell’intera corte pontificia e come aveva richiesto il suo corpo fu sepolto nel Pantheon. Acclamato in vita, divenne venerato nella morte. Forse Antonio Tebaldeo, un poeta amico di Raffaello, o più probabilmente il grande umanista Pietro Bembo compose per lui l’epitaffio inciso sulla sua tomba, il cui distico finale così recita: «ILLE HIC EST RAPHAEL TIMUIT QUO SOSPITE VINCI RERUM MAGNA PARENS ET MORIENTE MORI». Ossia, «Qui giace Raffaello, dal quale fin che visse la Natura temette di esser vinta; e quando morì temette di morire insieme a lui». E invece nessuno dei due sarebbe mai interamente morto. 

Trasfigurazione – 1518 / 1520 – Musei Vaticani