Ius primae noctis: falso mito o scomoda verità?

Tra le pieghe di un kolossal spudoratamente definito storico, seppure in base a come pare stiano le cose sarebbe più corretto considerarlo epico, capace di smuovere un budget di 72 milioni di dollari in cambio di un incasso pari a 210 milioni e cinque Oscar, dove, tanto per fare un esempio, per realizzare alcune scene furono arruolati circa 3.000 militari dell’esercito irlandese e furono utilizzate circa 10.000 frecce, dovrà pur esserci una qualche verità? Per quanto un film sia per antonomasia trasposizione, in alcuni casi mistificazione, ancor più spesso ispirato da una storia più o meno vera, nel pluripremiato e all’unanimità acclamato Braveheart la goccia che fa traboccare il vaso nel cuore impavido di William Wallance, innescando con il senno di poi una catena di eventi decisamente evitabili, ancor di più dell’oppressione inglese sulla sua Scozia è quando il nobile locale irrompe durante i festeggiamenti di un matrimonio reclamando la ius primae noctis.

Film mastodontico, avvincente, seppur carico di inesattezze storiche che, come ha specificato Mel Gibson, sono state volutamente commesse per spettacolarizzare il prodotto. Ma soprassediamo sulla caricatura omosessuale di Edoardo II, non guardiamo storto il costumista Charles Knode, reo di aver fatto ampio sfoggio del kilt, gonnellino entrato in vigore verso il 1700 e non certo nella metà del XIII secolo, per soffermarci sulla torbida e ancor più fantomatica ius primae noctis, ossia il diritto da parte di un signore feudale di trascorrere in occasione del matrimonio di un proprio servo la prima notte di nozze con la sposa.
Ebbene, per quanto gli storici si siano sforzati di trovare prove tangibili, o fosse pure accenni, dello ius primae noctis, dal Sacro Romano Impero alla Legislazione Longobarda e Carolingia, ma ancor più negli atti, nei registri o libri mastri francesi e inglesi, qualsiasi ricerca è risultata vana. La totale assenza di tracce dal valore giuridico ha di conseguenza spinto i saggisti appassionati al caso a considerare la ius primae noctis un’invenzione letteraria concepita nel periodo di passaggio tra il Medioevo e l’Età Moderna.
Appurato è semmai che un tale diritto abbia sollecitato le fantasie piccanti, ma ancor più perverse, di una schiera di letterati; primo fra tutti di Ettore Boezio il quale mentre stava redigendo la storia della Scozia a partire dall’epoca celtica si fece prendere la mano e giunto ai tempi di re Malcolm III Canmore, quindi nell’ix secolo, riportò il seguente passo: «… venne abrogata una usanza pessima e vergognosa instaurata dal tiranno Evenus che consisteva, per i signori dotati di potere, di godere la primizia della verginità di tutte le spose del loro territorio. Da allora lo sposo poteva riscattare quella notte versando al signore mezza marca d’argento; essi sono ancora oggi tenuti a versare questa somma, che è chiamata comunemente merchet della donna». Si tratta probabilmente dell’esempio più appropriato di come sia stato alimentato un falso mito mal interpretando, o lasciandosi guidare da istinti obiettivamente bassi, un tributo risalente agli anni dell’economia curtense, quando il signore poteva sì avvalersi di un diritto reale sugli sponsali equivalente a una tassa che il padre della sposa doveva pagare per ottenere il permesso di darla in dote. L’immaginazione degli ideatori della ius primae noctis potrebbe essere stata influenzata pure da una tassa richiesta dalla chiesa la quale, al pari dei signorotti feudali, se c’era da riporre qualche moneta in tasca non si è mai tirata indietro. Tale pagamento avrebbe consentito ai novelli sposi di consumare non appena tornati all’ovile, dribblando così il dogma che imponeva loro di astenersi dall’avere rapporti sessuali la prima notte in segno di rispetto verso la benedizione poco prima ricevuta.
Insomma, per quanto cupo, violento e sinistro fosse, al Medioevo è stata associata una pulsione che non gli è mai appartenuta, almeno non secondo gli usi e i costumi che avrebbero implicato una ius primae noctis così come nella credenza popolare è stata diffusa e tramandata. La carta non canta, non a livello legislativo, almeno. I teorizzati del complotto potrebbero però ribattere come l’assenza di prove giuridiche, non sia semmai la conferma che una pratica tanto ignobile fosse stata tenuta consciamente fuori da un qualsiasi atto, relegandola a una prassi comune, un diritto reclamato secondo tradizione verbale o chissà, un baratto che in alcuni casi gli umili stessi preferivano di buon grado al pagamento di una tassa che, in un modo o in un altro, doveva essere pagata.