Andre Agassi, tra zone d’ombra e di luce

«Ho sette anni e sto parlando da solo perché ho paura e perché sono l’unico che mi sta a sentire. Sussurro sottovoce: lascia perdere, Andre, arrenditi. Posa la racchetta ed esci da questo campo. Non sarebbe magnifico? Semplicemente lasciar perdere? Non giocare a tennis mai più? Ma non posso». Quando rievoca questi pensieri, quel bambino nato a Las Vegas il 29 aprile del 1970, è ormai diventato un uomo e si sta raccontando a milioni di persone. La sua non è una storia, è un’epopea intrecciata con le sue radici, che parte dal padre, Emmanuel Agassian, un cittadino iraniano di origini armene e assire che, dopo aver gareggiato come pugile alle Olimpiadi del 1948 e del 1952 per il suo paese natale, decide di trasferirsi a Las Vegas, ed ottenuta la cittadinanza americana cambia il proprio nome in Mike Agassi, mette su famiglia con una certa Elizabeth Dudley ed inizia a lavorare in un megaresort di proprietà del miliardario Kirk Kerkoiran, con cui stringerà una amicizia tale da dare all’ultimo dei suoi quattro figli proprio “Kirk” come secondo nome. Il primo nome era Andre. E sarebbe diventato Andre Agassi.

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Kim Clijsters, il cuore fiammingo

New York. 29 agosto 2012. Arthur Ashe Stadium. Sono le 18.36, ore locali, quando Kim Clijsters risponde di rovescio a una prima in slice di Laura Robson. La pallina le è appena partita dal piatto corde ma la Clijsters sa già che è destinata ad oltrepassare la riga di fondo. Per questo non tenta nemmeno di rientrare al centro, ma abbassa lo sguardo per una frazione di secondo per poi levarsi la visiera e avviarsi verso la rete, mentre la Robson si porta le mani alla testa, quasi stentasse a credere che la pallina le sia davvero sfilata alle spalle. Nel frattempo Kim è già arrivata alla rete e Laura Robson deve accelerare il passo per raggiungerla, per abbracciare quella donna che ha scritto alcune tra le più belle pagine di questo sport negli ultimi tredici. Mentre la regia televisiva propone il replay di quello che è appena diventato l’ultimo colpo ufficiale della carriera di Kim Clijsters, l’ex numero uno del mondo che non perdeva un match all’US Open dal 2003, indossa la giacca della tuta, si siede e compie un gesto per lei insolito: lascia scorrere, lentamente, le mani tra i capelli, per poi intrecciare le dita dietro alla testa e rimanere alcuni interminabili secondi con lo sguardo fisso nel vuoto, davanti a sé. In contrasto con l’incontenibile gioia della Robson, alle spalle di Kim Clijsters si posizionano sull’attenti tre raccattapalle, l’espressione seria in volto, quasi avessero colto la ‘gravità’ del momento. Kim Clijsters continua a guardare qualcosa, forse senza vederlo, senza sentire il pubblico che spiazzato dall’epilogo, la chiama per nome, fischia, rumoreggia sugli spalti. E poi c’è una folla sbigottita, accalcata sotto al maxischermo posto fuori dallo stadio; e gli organizzatori che mai si sarebbero aspettati che la n.89 del mondo battesse Kim Clijsters e che, solo per questo spiegheranno, non avevano programmato il match nella sessione serale. Il tutto mentre Kim Clijsters fissa un vuoto all’interno del quale solo lei riesce a scorgere qualcosa. Un vuoto fatto forse di frammenti provenienti da un passato solo suo, da un presente solo suo, in attesa di un futuro lontano da quel ‘catino’, dove aveva il pubblico dalla sua parte persino se affrontava delle giocatrici di casa.

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Justine Henin, la regina che non sapeva farsi amare

6 giugno 1992. Sulle tribune del Philippe Chatrier c’è una bambina di dieci anni che osserva rapita quanto sta accadendo in campo. Accanto a lei siede sua madre, una donna acqua e sapone, discreta, che a partire dal nome, Francoise Rosier, sembra un personaggio uscito da un film di Chabrol. La bambina ha un volto anonimo; a un’occhiata spicciativa si potrebbe scambiarla per un maschietto. Se ne sta sempre zitta, immersa in un mondo tutto suo fatto di punteggi che si intersecano con diritti al fulmicotone, rotazioni velenose, traiettorie che attraversano, tagliano il campo per poi ricucirsi in punti, game, set. La finale femminile della 91esima edizione degli Open di Francia vede fronteggiarsi l’ex no1 del mondo, Steffi Graf; e la nuova regina Monica Seles la belva di Novi Sad, colei che a soli diciannove anni, i con il punteggio di 6-2 3-6 10-8, ottiene il suo terzo titolo consecutivo a Parigi. La bambina, che di nome fa Justine ma la madre la chiama “Juju“, è un po’ delusa, lei tifa per la tedesca. Ma è già il momento della premiazione, Monica Seles solleva al cielo la coppa; e nessuno avrebbe mai immaginato che sarebbe stata la sua ultima volta. È in quel momento che Justine promette alla madre: «Un giorno mi vedrai vincere su questo campo». Chissà, forse qualcuno l’ha sentita pronunciare quelle parole e avrà persino sorriso, ignaro che una semplice frase avrebbe finito con l’ossessionare quella bambina destinata a diventare l’ultima grande regina di Francia.

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Vera Zvonareva, rebus irrisolvibile

Vera Zvonareva ”l’eterna seconda”. Vera Zvonareva “lacrima facile“. Vera Zvonareva ”quella delle scenate isteriche”. Bollata come una perdente di successo incapace di contenere le proprie dirompenti emotività, Vera Zvonareva è tra le rappresentanti della terribile armata russa senza ombra di dubbio quella più sminuita. A differenza di Maria Sharapova, Svetlana Kuznesova e Anastasia Myskina, Vera Zvonareva non ha vinto prove del Grande Slam. Come Elena Dementieva ha disputato due finali slam, perdendole entrambe, ma se la sua connazionale se n’é andata dalle Olimpiadi di Pechino 2008 con un oro appeso al collo, Vera ha dovuto accontentarsi di una medaglia di bronzo; così come contrariamente a Dinara Safina, pure lei vittima di due finali slam dissoltesi in niente, Vera non è mai riuscita a issarsi sul gradino più alto del ranking spingendosi “solofino alla seconda posizione assoluta.

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John McEnroe, Il braccio sinistro di Dio

«Sul campo da tennis sei solo. Mi chiedono perché mi arrabbio così tanto: la solitudine in campo è una delle ragioni principali. Sentirmi solo, allo sbaraglio. A volte mi chiedo come tutto questo sia potuto accadere. Credo di essere stato spinto verso una carriera che non desideravo affatto. Ovviamente per me il tennis si è rivelato un’avventura incredibile, ma la verità è che non cercai questa carriera fino a quando non fu il tennis a cercare me. Molti atleti amano il loro sport con tutto il cuore. Non credo di aver mai provato un sentimento simile nei confronti del tennis. Non vedevo l’ora di giocare, ma la partita in se’ era una costante battaglia contro due avversari: l’altro giocatore e me stesso». John McEnroe, il braccio sinistro di Dio, il mancino dotato di un talento fuori quotazione che ha rivoluzionato, deliziato, sconvolto l’impettito mondo del tennis; il ribelle che non si è mai vergognato di urlare la propria rabbia in faccia agli arbitri, di disprezzare gli avversari, di insultare il pubblico; ma anche colui che ha portato la magia dentro un campo da tennis, l’uomo che più di ogni altro è stato associato al tennis, che era il tennis e che ha lasciato un vuoto incolmabile nel nome di quella geniale e irripetibile contraddizione quale era lui, nella sua essenza, nel suo essere John McEnroe.

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Lleyton Hewitt, l’indomabile furore di un eletto

«Tutti avevamo capito che aveva qualcosa di speciale». Quando Tony Roche pronuncia queste parole è l’11 gennaio del 1998 e si sta riferendo a un ragazzino biondo che da lì a un mesetto compirà diciassette anni. A osservarlo fuori dal campo da tennis può essere scambiato per uno di quegli adolescenti che, pur praticando un qualche sport di squadra, proprio non riesce a irrobustirsi. Supposizione che però va a scontrarsi con l’atteggiamento, perché negli occhi di quel ragazzo è possibile scorgere una scintilla, un’audacia che solo una disciplina individualista può innescare. 

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L’Odissea di Jennifer delle meraviglia

«Ci sono molte analogie nelle nostre vite anche se tu  hai vinto molto più di me. Abbiamo affrontato sfide dure; sia in campo che fuori. Siamo arrivate ai vertici dovendo gestire grandissime pressioni e aspettative, non una ma due volte. Non solo siamo diventate delle campionesse, ma credo che abbiamo avuto una parte fondamentale nel trasformare il tennis in quello che è oggi. Abbiamo lottato duro l’una contro l’altra, ma guarda dove siamo adesso. Nelle nostre vite di tenniste si è chiuso un cerchio però siamo di nuovo insieme con un enorme rispetto, ognuna accanto all’altra, anche adesso che è tutto finito». È il 14 luglio 2012 e, nel giorno del suo “insediamento” nella International Tennis Hall of Fame, le prime parole che pronuncia Jennifer Capriati sono rivolte alla donna che l’ha invitata poco prima a salire sul palco, alla campionessa insieme a cui ha diviso e condiviso una ventina d’anni di tennis, tra esordi, ritiri e ritorni: Monica Seles. Dal primo match che le vide opposte, la semifinale del Roland Garros 1990, quando Jennifer aveva da poco compiuto quattordici anni e Monica Seles, che ne aveva solamente tre in più, la sconfisse 6-2 6-2; per passare al luglio del 1991  quando a San Diego la statunitense vinse il suo secondo titolo WTA battendo per la prima volta la belva di Novi Sad 7-6 al terzo; per soffermarsi al settembre dello stesso anno, alla semifinale dell’US Open quando ci volle un altro 7-6 nel set decisivo per decretare la finalista, e quella volta fu Monica a spuntarla; e poi via, via a contendersi tornei e posti al sole, fino all’ultimo match ufficiale, in quella semifinale di Miami del 2002, quando nemmeno a dirlo fu sempre un 7-6 al terzo a decidere la sorte del match, dando ragione a Jennifer.

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Hana Mandlikova, talento senza confini

Milano. Tennis Club Ambrosiano. È il giugno del 1977 quando Hana Mandlikova, una quindicenne cecoslovacca, dal tennis spumeggiante, il fisico asciutto e il carattere introverso, vince una delle più importanti competizioni riservate al tennis juniores, il Torneo Avvenire. Una trentina d’anni dopo, un socio del Circolo  Tennis milanese che ebbe modo di veder giocare la giovane Mandlikova la descrisse come: «Un talento senza confini. Qualcosa di simile non lo avevo mai visto prima. E non l’ho rivisto mai più». Si dice che quando Stendhal visitò la chiesa di Santa Croce a Firenze rimase così stravolto dalla sua bellezza che accusò palpitazioni, vertigini e giramenti di testa. Da qui il nome della Sindrome. L’azzimato sessantenne, tesserato per lo splendido Circolo Tennis  che si estende ai confini del parco Lambro, non si trattenne dal confidare che: «Se mai in vita mia ho vissuto una Sindrome di Stendhal è stato quando ho visto giocare Hana Mandlikova».

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Chris Evert, la donna che ha fatto innamorare l’America

«Ho sempre giocato per vincere. Perdere mi feriva. Sono sempre stata determinata nel voler essere la migliore». L’inclinazione di Chris Evert nei confronti del tennis agonistico non lascia spazio all’interpretazione. Lo stesso vale per i numeri che è riuscita a produrre nell’arco della sua carriera. Chris Evert ha vinto oltre il 90% delle gare disputate: 1304 su 1448; detiene un record di 125 vittorie consecutive sulla terra rossa, dove rimase imbattuta dal 1973 al 1979; e ha conquistato almeno una prova dello Slam per tredici anni consecutivi, dal 1974 al 1986. Le statistiche che riguardano i risultati negli slam sono impressionanti: su 56 partecipazioni ha raggiunto 52 volte le semifinali, 34 volte la finale e ha trionfato in 18 occasioni.

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Serena Williams e il sogno (in)giustamente spezzato

Un po’ come accadde a Iva Majoli in quello che appare come un lontanissimo e annebbiato 1997 quando la sua vittoria al Roland Garros l’avrebbe fatta passare alla storia non tanto come una campionessa slam quanto come “la croata che impedì a Martina Hingis di realizzare il Grande Slam”, diciotto anni dopo Roberta Vinci ha prenotato il posto, apparentemente impossibile da riservare, di outsider capace di infrangere il sogno della n.1 del mondo Serena Williams. Lei, la portentosa quasi trentaquattrenne nativa di Saginaw, l’infanzia trascorsa a Compton, una scalata verso l’Olimpo fortemente voluta dal padre pigmalione, un visionario per alcuni, uno Svengali per altri. Lei, Serena, perennemente a se stante eppure volenti o nolenti unita per l’eternità alla sorella Venus, sul tetto del mondo e puntualmente in lotta per contendersi slam contro “il resto del mondo”, da tempi immemori, ossia diciotto anni. Lei, Serena l’imbattibile, almeno si credeva, negli appuntamenti che contano, uscita sconfitta non da un campo qualsiasi, bensì da quell’Arthur Ashe Stadium che è stato sei volte suo senza però esserlo mai stato in pieno, perché Serena Williams mai è stata pienamente amata e capita in patria e mai lo sarà; ebbene battuta non da quella Victoria Azarenka da molti ritenuta la vera e propria mina vagante “anti-Grande-Slam”, non da Simona Halep da molti attesa al grande salto, non da Svetlana Kuznetsova, sempre capace di quel guizzo che è marchio di fabbrica delle fuoriserie, no, da una giocatrice “come tante”, seppure non proprio come tutte, da una Roberta Vinci, una data per “finita“, una considerata “più una doppista che una singolarista”.

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