Eilean Mòr, il faro del mistero

Al largo della costa occidentale della Scozia affiorano dall’Oceano Atlantico i Sette Cacciatori (Seven Hunters), poi ridefinite Isole Flannan in onore del vescovo Flann il quale nel 1600 decise di ritirarsi su una di esse, Eilean Mòr. Il vento, il mare, i gabbiani e le preghiere furono gli unici compagni di quell’uomo che per vent’anni riflesse e placò in quei lembi di terra oltre le Ebridi Esterne il suo bisogno di dialogo con Dio. L’alienazione e la solitudine del vescovo Flann trasudava nei muri della modestissima cappella in cui aveva dimorato, unica testimone del suo passaggio, ma anche dei tragici naufragi che colpirono un numero considerevole di imbarcazioni che, sedotte dal miraggio di nuove rotte commerciali, avevano sfidato la sorte  trasfigurata nelle imprevedibili correnti atlantiche per trovare la morte proprio ai bordi di quelle sponde rocciose.

Allo scopo di impedire quel perpetuarsi di disastri nel 1895 la Northen Lighthouse Board decise di intraprendere la costruzione di un faro alto 23 metri nell’isolotto maggiore – di 150 metri quadrati – Eilean Mòr, proprio accanto alla cappella del vescovo Flann. Su un progetto di David Alan Stevenson, nell’arco di quattro anni, la ditta di George Lawason costruì anche una sorta di rudimentale porticciolo, delle scale e dei binari ferroviari allo scopo di facilitare il trasporto dei materiali; il tutto per un costo di 6,914 sterline.

I faristi non potevano che essere quattro professionisti accuratamente selezionati; uomini dotati di nervi saldi, abituati a sopportare la solitudine ma ancor più inclini a riconoscere e trovare le contromisure per ogni piccolo trabocchetto che può celarsi tra le onde di un Oceano, fosse pure dalla postazione rassicurante di un faro. Forte della sua ventennale esperienza come farista, venne designato capo guardiano James Ducat. Egli era affiancato da altri tre faristi esperti nonché marinai di lungo corso: Thomas Marshall, Donald McArthur e Jospeh Moore. La gestione dei turni era ferrea quanto semplice: nell’isola dovevano essere sempre presenti almeno tre faristi i quali si alternavano tra sei settimane fissi ad Eilean Mor e due sulla terraferma.

Il 7 dicembre del 1899 il faro venne acceso per la prima volta e Joseph Moore scrive sul diario di bordo: «Eravamo ormai soli, la nave incaricata a rifornirci era ormai tornata in Scozia e sarebbe riapparsa dopo quindici giorni. Quella notte accendemmo la grande lampada per la prima volta. Fu un’emozione indescrivibile. Qualcosa di invisibile sembrava legarci a quanti erano in mare. Sapevamo bene cosa significhi per un marinaio vedere una luce amica che indica la rotta sicura. C’era qualcosa di strano nell’aria. Niente di terribile o spaventoso, solo uno strano silenzio in mezzo al fragore del mare, una pace che noi non riuscivamo a comprendere».

Quella luce pronta a squarciare la notte ogni trenta secondi si ripresenta puntuale, per oltre un anno finché, il 15 dicembre del 1900 il vapore Archtor facendo rotta da Filadelphia verso Leith, il porto di Edimburgo, per un niente non va a cozzare contro le isole Flannan. Il comandante Thomas John Holman individua all’istante il motivo: il faro di Eilean Mòr è spento. Giunto a destinazione il comandante, su conferma della sentinella, segnala la stranezza, ma vuoi per un banalissimo processo – tra l’altro risoltosi in nulla –  ai danni della Archtor rea di essersi arenata sulla Carphie Rock, vuoi per il forte vento che ha impedito al rifornitore Hesperus di partire il prefissato 21 dicembre, la soluzione delle incongruenze riportate vengono rimandate al 26.

A Joseph Moore, pronto per il cambio, qualcosa non torna sin dalle manovre di avvicinamento: la lanterna è spenta, la bandiera non è in posizione e nessuno dei suoi compagni è sulla banchina. Su suo suggerimento il capitano Jim Harrie si affretta a suonare la sirena della nave. Dal faro però non giunge alcuna risposta. Gettata l’ancora, Moore si precipita al faro per sbattere contro un’inquietante realtà: di Ducat, Marshall e McArthur non c’è traccia. Tutto riposa nella più assoluta normalità, anzi, l’ordine presente è persino eccessivo. Fatta eccezione di una sedia capovolta. Nel guardaroba vi è poi solo un’incerata, il che sembrerebbe indicare che gli altri due faristi erano regolarmente usciti con i loro equipaggiamenti. Come segno di passaggio dei tre faristi rimane solo il diario di bordo.

La lettura del diario, redatto da Thomas Marshall, getta nell’inquietudine Moore, i componenti dell’Hesperus e in seguito gli inquirenti.

12 dicembreVento di tempesta da Nord-NordOvest. Non ho mai visto un mare simile in vent’anni. Onde altissime lambiscono il faro. A parte questo tutto è in ordine ma Ducat è nervoso.

12 dicembre, ore 21La tempesta ed il vento sono incessanti. Siamo bloccati. Nave di passaggio suona la sirena. Era possibile scorgere le luci delle cabine. Ducat è ora tranquillo mentre McArthur piange.

13 dicembreLa tempesta è continuata tutta la notte. Vento da Ovest a Nord. Ducat è tranquillo. McArthur sta pregando.

13 dicembreUna giornata grigia. Io, Ducat e McArthur abbiamo pregato.

15 dicembreIl mare è calmo. Dio è sopra ogni cosa.

L’inchiesta, condotta dal sovrintendente Robert Muirhead, sarebbe giunta alla conclusione che i tre uomini erano al lavoro nell’immediato dopo pranzo del 15 dicembre e che mentre assicuravano una cassa sostenuta da cime per l’ormeggio fissata ad una fenditura della roccia a 34 metri sul livello del mare, un’onda immensa ha colpito lo scoglio inghiottendo Ducat, Marshall e McArthur.

Una conclusione carica di incongruenze, tesa a gettare ombre sulla condotta e la professionalità dei tre faristi, a quanto pare incapaci di valutare un pericolo distinguibile per chiunque, e che non ha soddisfatto tanto Joseph Moore quanto le famiglie dei tre faristi scomparsi. Diverse sono le ipotesi alternative. La presenza di una grotta sotterranea nelle vicinanze dell’isola che nei giorni di tempesta raccoglie un’enorme quantità d’acqua pronta a riversarsi contro la superficie porterebbe a pensare che uno dei tre uomini abbia visto una montagna d’acqua pronta ad abbattersi sull’isola e sia corso fuori ad avvertire i compagni senza però riuscire a impedire che la mareggiata scaraventasse tutti in mare. Ciò spiegherebbe la sedia rovesciata e la presenza di un impermeabile, ma non tutte le porte ed i cancelletti accuratamente chiusi.

Un’altra ipotesi suggerisce un eventuale duplice omicidio culminato con un suicidio. Spesso tirato in ballo nelle discussioni che erano solite svolgersi nelle taverne scozzesi, Moore ha però sempre escluso questo genere di epilogo perché, stando ai suoi racconti, mai e poi mai i suoi tre compagni avevano dato segno di un qualche squilibrio. Allo stesso tempo, però, nessuno di loro aveva nemmeno mai pianto o pregato. Moore, dalla cui penna era uscita la prima nota di bordo, non è mai riuscito a spiegare quel qualcosa di indefinibile che sembrava aleggiare nell’aria durante la prima notte al faro. Tra le pieghe di racconti tramandati, in bilico tra veridicità e leggenda, si potrebbe dedurre che Joseph Moore si fosse semplicemente lasciato coinvolgere e trasportare dall’atmosfera magica che emanava quel luogo avvolto dall’Oceano e dal silenzio. Come tra l’Oceano e il silenzio sembra essere destinato riposare il mistero di Eilean Mòr.