José Raúl Capablanca, il mito che nacque con la corona

«È un uomo elegante, senza avere i difetti che l’eleganza porta con sé; non fuma, non beve, è un igienista. Durante le fasi di giochi è destabilizzante, ma allo stesso appare egli stesso destabilizzato. Pare si tranquillizzi solo quando ottiene una chiara superiorità sull’avversario, eppure ho il sospetto che sia egli stesso il suo principale problema. Terminato il gioco l’impressione che trasmette è che per lui gli scacchi siano poco più di un passatempo». Così Rudolf Spielmann, maestro austriaco di scacchi, descrive José Raúl Capablanca, il genio per eccellenza, il talento incontenibile intorno alla cui figura venne costruito una sorta di mito dell’imbattibilità prima ancora che diventasse campione del mondo. Ma seppur tanti si inchinarono a Capablanca e ancor più assordanti furono le imprese da lui compiute, imbattibile il cubano lo fu principalmente nell’immaginario collettivo,   nei meandri della mente degli avversari che avrebbero preferito l’inferno al sedervisi di fronte.

José Raúl Capablanca nasce a L’Avana, il 19 novembre del 1888. La madre appartiene all’aristocrazia locale, il padre è un ex ufficiale spagnolo divenuto con l’età un ricco possidente terriero solito trascorrere le serate nel proprio studio, a giocare a scacchi ora con un amico ora con un altro. José Raúl ha quattro anni quando domanda di poter assistere a un incontro. Il religioso silenzio a cui il bambino si attiene per svariate ore convince il padre a concedergli di tornare la sera seguente, nonché la sera dopo ancora; quand’ecco che José Raúl nota un errore che sfugge ad entrambi i giocatori: il genitore muove il cavallo da una casa bianca a un’altra del medesimo colore per vincere la partita da lì a poco. Dopo la stretta di mano la voce del figlio gela però l’atmosfera: «La mossa con il cavallo non era regolare». Ne nasce una piccola disputa e per placare il risentimento dell’uomo, José Raúl ripercorre le ultime mosse fino a quella incriminata. «Jo te doy la salida!», ossia «Io ti batto!»; tuona il futuro campione. E nemmeno a dirlo, sin dalla prima sfida fu lui a vincere.

Se a nove anni comincia a frequentare, ogni domenica, il  circolo scacchistico diL’Avana, appena tredicenne si sente pronto per confrontarsi con il campione nazionale cubano, Juan Corzo. La battaglia si conclude con una vittoria di Capablanca che si impone con 4 vittorie, cinque patte. Appena diplomato ha in mano un biglietto per New York dove, nonostante sa iscritto alla facoltà di ingegneria chimica, passa la maggior parte del tempo al Manhattan Chess Club. Tempo tre anni ed ha inizio la scalata. Dal successo sullo spilungome yankee Frank Marshall in un prestigioso torneo newyorkese al trionfo nel torneo internazionale di San Sebastian, a cui partecipano i migliori giocatori del momento tranne il campione del mondo Lasker, la scalata di José Raúl Capablanca pare inarrestabile. Il tutto, limitandosi a sfogliare distrattamente un libro sulle aperture.

Alla fine del 1911 invita ufficialmente Emanuel Lasker a disputare un incontro valido per il titolo mondiale. A quel tempo non esisteva una Federazione Internazionale del Gioco degli Scacchi che gestisse lo svolgimento dei campionati mondiali e la messa in palio del titolo era a discrezione del detentore e il tedesco impose però condizioni inaccettabili: lo sfidante avrebbe dovuto vincere due partite in più per ottenere il titolo. Capablanca rifiuta le condizioni e torna a Cuba per trascorrere una manciata d’anni in tranquillità, insieme alla moglie Gloria Simoni Beautucourt.

Il ritorno alle competizione, avvenuto nel 1913, non rispecchia le sue abnormi aspettative. Nonostante le straripanti vittoria in quattro eventi tenutosi a New York, al torneo di L’Avana si classifica secondo, superato a Marshall. Si tratta di una sconfitta che segna la sua natura orgogliosa e che a novembre lo induce a recarsi in Europa per partecipare a incontri non ufficiali, che vince a man bassa. L’iniezione di fiducia lo fa optare per il torneo di San Pietroburgo. È l’aprile del 1914 ed i migliori undici giocatori del momento devono attenersi a una forma singolare: un girone all’italiana con i primi cinque poi autorizzati ad affrontarsi in un doppio girone finale. Capablanca vince il girone preliminare con un punto e mezzo di vantaggio su Lasker. Al terzo match con Lasker, forse convinto di condurre in porto una patta, il cubano però si addormenta, gioca in modo passivo e cade in una posizione svantaggiosa che lo porta alla sconfitta. Incline com’è al concetto di perfezionismo, Capablanca subisce un contraccolpo psicologico tale che, opposto a Tarrasch, si lascia andare a uno strafalcione che lo rilega al secondo posto, alle spalle di Lasker.

Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale l’attività scacchistica europea si ferma me Capablanca ripiega verso gli Stati Uniti dove stravince i tornei di New York del 1915, del 1916 e del 1918. L’anno dopo va ad Hastings, in Inghilterra, per partecipare alla competizione che festeggia la vittoria contro la Germania e i suoi alleati. Capablanca si classifica primo con 10 vittorie e una patta su 11 partite. Ai primi del 1920 iniziano estenuanti trattative con Lasker per organizzare l’incontro valido per il titolo mondiale. Il tedesco è campione del mondo da ventisette anni, già altre volte ha sentito la terra tremare, ma ormai Casablanca è qualcosa di più di un possibile usurpatore, è un’ossessione, è un fantasma a cui deve opporsi. Alla fine, ottenuto un ingaggio di 11.000 $, il cinquantaduenne Lasker, campione del mondo da ventisette anni, accetta di giocare a L’Havana su un limite di 24 partite. Il torneo inizia il 15 marzo del 1921. Bastano però 14 partite. I l 27 aprile Lasker abbandona il torneo dopo essere affondato in quattro sfide con dieci patte. Capablanca è campione del mondo.

Nell’agosto del 1922 Capablanca partecipa al torneo di Londra che vince, davanti all’imperscrutabile Alekhine. Il cubano stabilisce le regole del futuro campionato mondiale: si sarebbe giocato fino alle 6 partite vinte e al campione uscente sarebbero stati garantiti 10.000 $ oltre i rimborsi di spese di viaggio e alloggio. Riceve una sfida da Rubinstein che non riesce però a raccogliere il denaro sufficiente. L’anno dopo è Alekhine a contattare uomini d’affari americani per ottenere il finanziamento necessario: questi rifiutano ma finanziano un Torneo che si svolge a New York; vinto poi paradossalmente dal mai morto Lasker, davanti a Capablanca e Alekhine.

Passano sei anni e Alekhine ottiene i finanziamenti dal governo argentino per organizzare il Campionato del Mondo da tenersi a Buenos Aires fra lui e Capablanca. Quando il 16 settembre del 1927 Capablanca e Alekhine si siedono nel Circolo degli Scacchi di Buenos Aires, le previsioni son tutte per il cubano: è lui il genio, l’uomo che non aveva mai tratto lezione da un qualsiasi testo riportato su un manuale di scacchi, «se non per far colpo su qualche signora»; come ebbe a dire. Il russo invece era un analitico, un conservatore, sarà anche per questi motivi che si limita  a commentare: «Non so come potrò vincere sei partite con Capablanca, ma non so nemmeno come potrà farlo lui contro di me». La prima gara sembra dargli ragione: Alekhine vince con il Nero. Capablanca recupera alla terza partita e passa in vantaggio nella settima. Tutto sembra avviarsi nei binari previsti, ma Capablanca pecca di presunzione e Alekhine vince l’undicesima e Capablanca perde anche la successiva. Sul 3-2 per Alekhine, seguono otto patte; nella ventunesima Capablanca perde. Nella ventisettesima commette un clamoroso errore di superbia e si lascia sfuggire l’occasione di vincere. Si rifà alla ventinovesima. Sul 4–3 sembra che l’incontro possa riequilibrarsi ma, dopo due patte, Alekhine vince la trentaduesima e Capablanca crolla: pareggiata la successiva, perde la trentaquattresima e il titolo. José Raúl Capablanca non avrà mai più occasione di una rivincita in quanto Alekhine, ferito da alcuni atteggiamenti del cubano, non gliela concederà mai. Anni dopo, Capablanca affermò che fu stordito dall’enorme forza di resistenza di Alekhine; mentre il russo, poche settimane prima della morte, dirà: «Perché Capablanca perse il titolo? Confesso che fino a oggi non ho potuto rispondere a questa domanda, dal momento che, nel 1927, non credevo di poter vincere. Forse sopravvalutò le sue forze e sottovalutò le mie».

Gli anni ’30 si dimostrarono per Casablanca un vero e proprio calvario. Riconosciuto da chiunque il migliore, seppur senza corona, attese con ansia il risultato valevole per il titolo tra Euwe e Alekhine. Se l’olandese avesse vinto… ma non fu così: Alekhine si riprese il titolo nel 1937 e le speranze del cubano di poter ancora disputare un incontro mondiale tramontarono definitivamente. La vittoria stracciante al torneo di Mosca, dove tra l’altro non da scampo ad Alekhine, altro non fu che l’ultimo fuoco di un Dio capace di imporre la propria aggressività se non a sprazzi. José Raúl Capablanca ha appena cinquant’anni quando la AVRO, emittente radiofonica olandese, organizza un Torneo a cui partecipano gli otto migliori giocatori del momento. Capablanca sembra esser spinto da un’unica ossessione: battere Alekhine. Il tutto finirà con una vittoria finale dei giovani Keres oltre alla a una bruciante sconfitta subita per mano del russo in quella che resterà l’ultima partita giocata fra i due.

Il naufragio del primo matrimonio, la celebrazione di un secondo con Olga Clark, la scomparsa del primo grande nemico Lasker, una serie di stagioni scacchistiche sottotono scandite da quella depressione che l’aveva ormai irrimediabilmente reso un uomo diverso, con sullo sfondo l’avvento seconda guerra mondiale, sembrano con il senno di poi il preambolo di una fine già scritta. La sera del 7 marzo 1942, mentre si trova nel Circolo di scacchi di Manhattan, Capablanca si sente male: trasportato nell’ospedale del Monte Sinai, lo stesso dove l’anno prima era morto Lasker, si spegne, il mattino dopo, a causa di un ictus cerebrale. I suoi resti riposano a L’Avana nel cimitero di Colon. Sulla tomba, posta nel viale principale, c’è una sola scritta “Capablanca“. Alekhine gli sopravvive quattro anni, e celebra il rivale: «con la sua morte abbiamo perduto un grande genio quale mai ci fu e mai più ci sarà».

Perché nessuno quanto Alekhine, e forse prima Lasker, aveva potuto percepire interamente l’insostenibile grandezza di José Raúl Capablanca. Perché nessuno, più di loro, aveva vissuto sulla propria pelle quell’ansia di riscatto, di apoteosi e metamorfosi che autorizza ogni pedone a sognare di diventare regina. Mentre Casablanca no, lui pedone non si era mai sentito. Lui era nato con la corona già posata sul capo.