Ius primae noctis: falso mito o scomoda verità?

Tra le pieghe di un kolossal spudoratamente definito storico, seppure in base a come pare stiano le cose sarebbe più corretto considerarlo epico, capace di smuovere un budget di 72 milioni di dollari in cambio di un incasso pari a 210 milioni e cinque Oscar, dove, tanto per fare un esempio, per realizzare alcune scene furono arruolati circa 3.000 militari dell’esercito irlandese e furono utilizzate circa 10.000 frecce, dovrà pur esserci una qualche verità? Per quanto un film sia per antonomasia trasposizione, in alcuni casi mistificazione, ancor più spesso ispirato da una storia più o meno vera, nel pluripremiato e all’unanimità acclamato Braveheart la goccia che fa traboccare il vaso nel cuore impavido di William Wallance, innescando con il senno di poi una catena di eventi decisamente evitabili, ancor di più dell’oppressione inglese sulla sua Scozia è quando il nobile locale irrompe durante i festeggiamenti di un matrimonio reclamando la ius primae noctis.

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Il Grande Miao, una storia di conquista

Risale al 1964 la prima pubblicazione di Il Grande Miao, romanzo di cui Paul Gallico si assume l’onere e l’onore di firmare solo la prefazione e la postfazione, mentre il blocco centrale proviene tutto dalla zampetta di una gatta, tale Micina. Per intenderci, lo scrittore racconta di essersi visto consegnare un manoscritto che un vicino si era trovato davanti alla porta di casa. Lavorando in una casa editrice ed essendo scritto seguendo un apparente codice cifrato, il tizio chiede a Paul di venire a capo del rebus. Colto da un’illuminazione, Paul Gallico capisce ben presto che l’autrice questa gatta che, raccontando la propria storia ed esperienza personale, intende fornire preziosi consigli ai suoi simili affinché possano spingersi verso la totale conquista felina della razza umana.

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Centralia, l’inferno che ha ispirato Silent Hill

Centralia. Contea di Columbia sito nello Stato della Pennsylvania. È in una domenica autunnale al tramonto del XIX secolo che il prete della comunità, adirato per l’obbrobriosa condotta dei suoi parrocchiani, avrebbe pronunciato l’infausta profezia: «Centralia scomparirà tra le fiamme eccetto la chiesa e il cimitero». Caso, destino o intervento divino, attualmente di Centralia rimane una chiesa, un cimitero, un edificio in cui sosta un camion dei pompieri e… sette abitanti. Un tempo florida cittadina mineraria, a ridurla in una sorta di città fantasma è stato un incendio divampato nel maggio del 1962 e che ancora arde nel sottosuolo ricco di antracite, a più di cento metri di profondità, in una superficie di quasi 3700 acri.

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Russofobia, pregiudizi e menzogne

«Perché prendersela con qualcuno per niente quando ce la si può prendere con la Russia per tutto?». Questa domanda provocatoria sembra essere il perno su cui fa leva Guy Mettan per documentare le percezioni distorte, le immagini traviate, le accuse infondate che l’Occidente ha accumulato nei confronti della Russia al fine di imputarle l’etichetta di popolo barbaro, incapace di far sentire la propria voce perché ignorante in quanto sottomesso al dispotismo, ma incline, nel nome di quel solo uomo al potere, a riversare sulle altre genti un atroce espansionismo. È forse troppo semplice soffermarsi sul significato del termine despota? Diversamente dall’Europa, in cui è sinonimo di tiranno, in slavo altro non significa che re. Essere un autocrate per un sovrano russo significa non essere il vassallo di nessuno, esser libero rispetto a qualsiasi potenza straniera e non dovere il proprio potere a nessuno se non a Dio. Guy Mettan è lucidissimo quando spiega come «A partire dagli umanisti del rinascimento la libertà è per gli occidentali un modo di raggiungere la perfezione e la salvezza eterna. I russi considerano la libertà come un potere capriccioso e discrezionale che immerge l’uomo nella depravazione e lo allontana dalla salvezza. Ragion per cui essi hanno delegato la libertà al principe e non agli uomini affinché possa essere egli per loro il garante della pace».

Un sentimento, la russofobia, che il giornalista e scrittore svizzero spiega come abbia visto origine tredici secoli fa, quando Carlo Magno, in stretto accordo con i teologi del papa, ha deciso di cancellare Mosca dalla coscienza europea come era stato fatto con Bisanzio. La disputa sul Fililoque, – innescatasi dal momento in cui è stata cambiata la formula del Credo accordata durante l Concilio di Nicea del 381, la quale recitava che lo Spirito procede dal Padre, senza aggiungere dal Figlio, passaggio quest’ultimo inserito nell’ambito della Chiasa latina senza il benché minimo scrupolo di dialogo con la Chiesa orientale – altro non è stato che il primo sasso lanciato contro un l’Est Europa e generatore di un Scisma non solo religioso.

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I viaggiatori senza nome di Amélie Nothomb

L’entrata di Cristo a Bruxelles” e “Senza nome” sono due racconti brevi usciti dalla costantemente illuminata penna di Amélie Nothomb. Entrambi leggibili in poco più di un’ora, necessitano di tempi tutt’altro che brevi affinché si dispieghino quei processi di “metabolizzazione” che, quasi fosse un’esigenza non scritta da parte della belga, conducono il lettore tra i meandri di trame che all’apparenza sinuose non sono, ma celano in loro stesse chiavi di lettura multiformi, a loro volta suddivise in spunti e trabocchetti, tutti equamente distribuiti affinché curiosità, noia, incomprensione o sensazione di aver isolato l’elemento risolutore delle vicende si mescolino tra loro allo scopo di rimescolare le carte per l’ennesima volta.

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La grave leggerezza dell’essere umani

È nell’estemporaneità di un’impalpabile brezza filosofica che si compie e si consuma tutta l’insostenibile leggerezza dell’essere che attanaglia gli esseri umani. Il principio si basa sulla visione di Parmenide del Cosmo – che non ritiene composto da entità soggette a trasformazione, bensì costituito dall’essere, ossia una sostanza unica, immobile, ingenerata, e continua – nel cui calderone può compiersi la teoria dell’eterno ritorno di Friedrich Nietzsche, il quale concepisce il tempo come ciclico, per cui l’universo rinasce e rimuore ripetendo eternamente un determinato corso e rimanendo sempre sé stesso.

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George Michael, l’uomo che voleva afferrare la ‘luce verde’

«Last Christmas I gave you my heart, but the very next day you gave it away». La profezia di un ultimo Natale, un cuore carico di passione gettato via. Sono tante le metafore, i simbolismi che sembrano aver innalzato, accompagnato, fino a deturpare la parabola artistica e umana di George Michael. Dall’eco assordante che ha generato l’esplosione planetaria degli Wham! alla trionfale, seppur meno delirante in termini di isteria  di massa, consacrazione come solista, un salto nel buio, o meglio fra le stelle, fortemente desiderato, voluto, proiettato verso una ricerca che ne ha fatto un qualcosa di diverso senza però mai riuscire a tranciare definitivamente con il suo passato, senza riuscire a stracciare l’icona da sex symbol cucitagli addosso, non sugli abiti ma sulla pelle, nonostante il coming out, nonostante gli scandali, nonostante le ombre sinistre che si rispecchiavano su quello che pareva trasfigurarsi in un precoce viale del tramonto, un silenzio, una crisi esistenziale o chissà, forse persino produttiva, che ne ha avvolto gli ultimi anni di vita. Perché no, «so I’m never gonna dance again», come cantava in Careless Whisper, non ballerà mai più George Michael, morto a cinquantatré anni proprio la notte di Natale, un ultimo ballo carico di amarezza, di domande senza risposte, mentre in tutti cresce l’esigenza di riavvolgere il nastro.

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