Los Angeles, una magia senza inizio e senza fine

Los Angeles. Nome in codice L.A. Per i sognatori, i romantici, i visionari, i poeti molto di più: la città degli angeli. Los Angeles la città senza un centro, senza una vera e propria piazza, senza un’identità definita e definibile, bensì un agglomerato di anime suddivise in una contea che sembra non finire più, perché effettivamente dici Los Angeles e ti immagini il futuro, le opportunità, il mare, il deserto, i canyon il sole e le stelle. Los Angeles dice tutto, senza dire niente. Perché Los Angeles è un sortilegio, un sogno ad occhi aperti che tanto promette e niente mantiene, o meglio, è persino disposta ad offrirti di più, a donarti di più, così, come per magia. A patto che la respiri, la comprendi, la riverisci. Fino a divenirne ostaggio.

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Morley, se stai leggendo c’é ancora tempo

«Se stai leggendo questo, c’é ancora tempo». Ed il tempo per Morley è un mescolarsi tra passato, presente e futuro; tra le pieghe di una proiezione intima, sensoriale, prima ancora che legata allo scorrere delle ore, dei giorni, della vita. Morley non combatte il consumismo, non posa la propria attenzione sul razzismo, non sentenzia sulle guerre e il bisogno di pace nel mondo. Per Morley l’essere umano si consuma senza che gli sia imposto di sottostare a diktat sociali, senza piegarsi al sistema, perché la vera guerra è quella che ognuno combatte all’interno della propria anima in una rilettura infinita di ciò che è stato o avrebbe potuto essere, nella speranza di un futuro che forse non sarà, ma per cui è necessario lottare. Per Morley la pace è avere qualcosa per cui lottare, per cui soffrire, per cui essere felice.

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Il doppio inferno di Franz Kafka

«Che cosa state facendo, qui, in questo inverno senza fine?».

Un ritratto infantile presenta Franz Kafka come un bambino sui cinque anni, snello, con grandi occhi scuri, interrogativi, le labbra cupamente chiuse, perfettamente concilianti con l’adulto che sarebbe divenuto, le cui fotografe mostrano un uomo con il volto scavato, signorile, l’espressione sostenuta, lo sguardo, acuto e penetrante, fisso sull’osservatore, quasi volesse carpirne i pensieri, la natura. Eppure Franz Kafka è appeso a un doppio filo. Proveniente da una famiglia benestante, nonostante l’ingombrante presenza paterna, nessuno lo ostacola nell’approfondire la sua passione per la letteratura, per la filosofia e la religione, così come non gli viene posto alcun veto riguardo alle amicizie, tutte appartenenti a circoli artistici. Franz però, si considera brutto, inetto, e il desiderio di compiacere il padre è così pressante da non mettere mai in discussione l’ipotesi di un futuro diverso da quello dell’assicuratore. Tutto in lui sembra rispecchiare processi tesi allo svilimento personale: tormentato dal desiderio sessuale, per la maggior parte della sua vita frequentò bordelli, alternando questa pratica a relazioni travagliate, tutte condizionate dall’angoscia del fallimento che espiava  ricorrendo a sistematici tradimenti. La sua posizione sociale era solida, ma allo stesso tempo, l’ordinarietà delle sue mansioni lo rese una sorta di invisibile. Fu la scrittura a permettergli di aprire il proprio animo ai sentimenti più segreti, incanalando una parte di sé tra i meandri di una doppia vita che non prevaricò mai le sue giornate ufficiali. Sentendosi inadeguato a tutto, non avvertì mai la necessità di essere riconosciuto come autore e di conseguenza non attribuì nella pubblicazione un fine. Semplicemente, per Franz Kafka scrivere era un’esigenza al servizio del proprio io.

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Babelplatz, un rogo lungo secoli

«Quando i libri verranno bruciati, alla fine verranno bruciate anche le persone».

Heinrich Heine

Berlino. Quartiere Mitte. Quando tra il 1741 e il 1743 George Wenzelaus von Knobelsforff presentò alla corte del Re Federico II di Prussia un progetto teso a rivalutare la Opernplatz, ossia Piazza dell’Opera, affinché rappresentasse il punto focale del Forum Fridericianum, difficilmente quel regno che avrebbe fatto della cultura un moto d’orgoglio, avrebbe mai immaginato che il 10 maggio del 1933, quel luogo in seguito ribattezzato Babelplatz in onore dello scrittore August Babel; su ordine del ministro della propaganda del Terzo Reich, Joseph Goebbels, sarebbe stato teatro di un rogo durante il quale vennero bruciati circa 25.000 libri di autori illustri, eppure considerati sovversivi, pericolosi per il regime.

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Svetlana Kuznetsova, l’inquietudine del talento

 È l’11 settembre del 2004 quando sul cemento di Flushing Meadows la diciannovenne Svetlana Kuznetsova sconvolge il mondo del tennis conquistando lo slam più difficile, più duro, dove in genere non c’è spazio per le sorprese, perché a vincere l’US Open sono i più forti. Quell’anno la storia si sovrappose al tennis, rendendo la finale dello slam newyorkese unica, indimenticabile. Sono le 8 p.m quando sull’Arthur Ashe Stadium si espande l’anima nera del tennis, ma anche della vita: la soprano Jessye Norman affiancata dai Boys Choir esegue una toccante versione di “God Bless America”, seguita da un minuto di silenzio in memoria delle vittime dell’attacco alle Torri Gemelle avvenuto nel 2001 e degli atti di terrorismo rivolti contro la Russia nemmeno dieci giorni prima alla scuola di Beslan. A rendere l’epilogo della 123esima edizione dell’US Open, fuori dall’ordinario sono anche le protagoniste: Svetlana Kuznetsova ed Elena Dementieva. Russe, amiche, compagne di viaggio nel circuito, eppure due giovani antitesi. Elena: un gioco schematico, solido, assemblato con il duro lavoro. Svetlana: l’eccezionale bagagliaio tecnico, un tennis virile tempestato da invenzioni, spesso imprevedibili, seppure consolidate da una sorta di indole primordiale che accomuna i fuoriclasse; timidezza e sfrontatezza, luce e oscurità. Due games concessi a Sesil Karatantcheva, il duplice 6-3 rifilato a Nicole Pratt, il 7-6(3) 7-5 necessario per congedare la veterana veterana Amy Frazier, il 7-6(5) 6-2 con cui si è sbarazzata di Mary Pierce, il 7-6(4) 6-3 impartito a Nadia Petrova, il set ed il break di svantaggio recuperato a Lindsay Davenport per andare a imporsi con il punteggio di 1-6 6-2 6-4, ed infine il 6-3 7-5 fissato, con un ace di seconda, sul tabellone segnapunti all’ultimo atto.

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Met Gala 2019, un sogno lungo una notte

Il Met Gala. Tecnicamente un evento di beneficenza a favore del The Costume Institute, che si tiene ogni primo lunedì di maggio presso il Metropolitan Museum of Art di New York. Padrona assoluta di casa è sua maestà Anne Wintour, onnipotente direttrice di Vogue che, insieme al curatore Andrew Bolton, ha scelto come tema annuale il “camp”, ossia un concetto tanto esteso quanto difficile da definire con precisione. Un po’ come è complesso da classificare tutto ciò che ruota intorno al mondo della moda, del cinema, di Hollywood e del Met stesso, considerato non a caso una sorta di “serata degli Oscar della costa orientale”. Ad ogni modo, esiste un testo di riferimento, ossia l’omonimo saggio di Susan Sontag, pubblicato sulla rivista Partisan Review nel lontano 1964. Giusto per facilitare le cose, la categoria del “camp” abbraccia universi estetici lontani fra di loro,avendo però come punto in comune il “principio della contraddizione”. Insomma si parla di tutto e del contrario di tutto, seppure tutto converge tra le braccia di un messaggio visivo eccentrico, esagerato, artificioso, possibilmente molto, molto snob. Certo, la serata non è per tutti. Chi è senza invito – e la lista è lunga – deve metter mano al portafoglio: 25,000 $ per un ticket, quanto al tavolo, indispensabile per partecipare al party, il prezzo varia dai 75,000 $ ai 250,000 $. 

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Kristen Stewart, la fragilità dei contrasti

«Se fossi un animale vorrei essere un gatto. Si sa come funziona con i gatti, li chiami e loro restano lì a guardarti come se ti stessero dicendo: e tu chi sei? Che vuoi da me? F*** you!».  C’è qualcosa di poeticamente selvaggio in Kristen Stewart. C’è qualcosa che sfugge, che si sradica dall’effimera logica Hollywoodiana, dalle sue ridicole e ancor più paradossali imposizioni, dalla baraccopoli di luoghi comuni, dal teatrino mediatico, dal paesaggio che compone il dipinto di una ragazza alla soglia dei trent’anni ancora incastrata tra le pagine di un copione dozzinale, una saga di vampiri mescolati a lupi, alla quale, ai fini pratici, piaccia oppure no, deve dimostrarsi riconoscente; perché quel Twilight le ha offerto uno status di popolarità planetaria. Eppure al tempo stesso quel successo stratosferico altro non ha fatto che ribadire la mostruosità dell’idolatria fine a sé stessa, innescando una sorta di odio all’incontrario, perché quelle dilatazioni anestetiche degli eventi, quella chiusa prevedibile come una via crucis, quei primi piani registicamente inespressivi; tutto ciò è degenerato al punto da mettere in discussione l’attrice che ha interpretato l’unico personaggio che avesse un senso in quel non senso globale.

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Bobby Fischer, il re solo

Non poteva permettersi di coltivare sogni, l’adolescente Regina Wender. Figlia di esuli polacchi, trapiantati in Svizzera; appena sedicenne, iniziò a lavorare come operaia in una fabbrica bellica perché quella miseria da cui i genitori avevano tentato di fuggire, sembrava far parte del loro patrimonio genetico, un po’ come le origini ebraiche. Tra immani sacrifici riuscì comunque a terminare gli studi da maestra, ad abbandonare la catena di montaggio per un posto da insegnante, per quindi iscriversi a un corso da infermiera e iniziare a correre di corsia in corsia, finché un giorno prese un treno Mosca dove, oltre a laurearsi come medico, avrebbe sposato Gerhardt Fischer, il quale nel 1938 la rese madre di una bambina, Joan. Il rapporto non tardò però a incrinarsi e Regina decise di volare negli Stati Uniti, paese in cui, guarda caso, a Gerhardt venne negato il permesso di immigrazione per le sue sospette simpatie comuniste. Assunta in un ospedale di Chicago, nel 1942 iniziò a frequentare il fisico ungherese Paul Nemenyi, dando vita a una relazione che apparve persino negli atti dell’FBI – che seguiva segretamente la vita privata della coppia perché sospettava che lei potesse essere una spia al servizio dei Sovietici, tanto più da quando al compagno era stato affidato un importante incarico presso il Naval Ordnance Laboratory di White Oak. Il 9 marzo del 1943 Regina diede all luce il suo secondo figlio: Robert James. Non poteva essere figlio del marito, da cui Regina divorzierà nel 1945, eppure sul certificato fu registrato il cognome Fischer”. E fu così, che quel bambino sarebbe passato alla storia, come Bobby Fischer.

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Füssli, il pittore del diavolo

Era solito definirsi «painter in ordinary to the Devil», il pittore ufficiale del diavolo. Precursore inaccessibile, affascinò i suoi contemporanei, appannando la bellezza neoclassica di paura, di ombre, di un qualcosa di indefinibile, pronto a varcare i confini del reale per farsi spazio in un mondo intermedio dove creature spettrali, demoniache, appaiono in tutta la loro inconsistenza tattile, scavando abissi immani nella mente, suggerendo visioni sinistre, ansiotiche; dando voce a quel tormento universale spesso impossibile da esprimere a parole. Johann Heinrich Füssli fece del disagio, dell’oppressione, i confini entro cui muoversi, caricando di amorfa oscurità i luoghi in cui fissava quelle incarnazioni fuggite dagli incubi, dai deliri, dalle superstizioni, dal cuore dell’umanità.

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I demoni del giovane Salinger

«Io sono il più fenomenale bugiardo che abbiate mai conosciuto. È spaventoso. Perfino se vado all’edicola a comprare il giornale, e qualcuno mi domanda che cosa faccio, come niente dico che sto andando all’opera». Holden Caulfield ha sedici anni, è alto, magrissimo ed ha alcuni capelli bianchi sul lato destro della testa. Pur essendo un bugiardo patologico, odia gli ipocriti e tenta di respingere l’angoscia che lo attanaglia tramite un cinismo a tratti commuovente. Per quanto si definisca spesso «stupido» la sua prorompente sensibilità, la devastazione che si è insidiata nel suo animo con la morte del fratellino minore, lo rende più maturo dei suoi coetanei. Jerome David Salinger ne fu consapevole sin da subito. Grazie al suo personaggio aveva scoperto sé stesso, quel vuoto a cui non riusciva a dare un nome, quel desiderio di assoluto che rischia di ridursi in niente. Holden Caulfield era il suo alter-ego, divenne la luce in fondo al tunnel, una possibilità di redenzione, un aiuto per esorcizzare i propri demoni.

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