Kristen Stewart, il dono della diversità

Kristen. Che nome fuori dal tempo. Così denso, corposo, eppure al tempo stesso sottile, delicato, che scivola via senza però mai andarsene fino in fondo. Se poi a Kristen, si aggiunge Stewart, lo senti una volta e non lo dimentichi più. Sembra fatto apposta per restare anche se non vorrebbe, simbolo e concetto dell’ancestrale contrasto che si porta dentro. Non a caso, Kristen significa “consacrata”, un termine solenne, che presuppone una benedizione, un’investitura inviolabile. Nomen Omen, perché stando ai latini il nome è un presagio, in esso vi è indicato il destino. 

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Quarantena

Non ho ancora capito cosa mai possiamo aver fatto per aver meritato tutto questo. All’inizio aprivo gli occhi e l’unico senso in grado di affiorare era un vuoto ingombrante. Un senso di nulla scandito da un rimbombo sordo, pulsante ma ovattato. Quel senso di vacuità senza date, né luoghi, senza giorno, né notte inghiottito a poco a poco dall’affiorare di passi dispersi, voci indistinte, echi simili a fili aspri. Solo allora quel pozzo senza fondo inizia a creparsi, a sgretolarsi. E lì, tutto si rovescia. La materializzazione della realtà sono i morti. Una processione di volti sconosciuti, immaginati, forse nemmeno mai esistiti. I morti ormai non muoiono, i morti nascono sotto forma di numeri privi di vicinanza, di vissuto comune. Ipocrisia. La gente moriva anche prima della quarantena. Ma ora c’è la paura. La paura di diventare un numero. La paura che tua madre o tuo padre, diventino niente altro che un numero. Genitori, figli, nonni, mariti, mogli, amanti, amici; tutti numeri.

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Serena Williams, l’indomabile

Serena Williams ha fatto giocato la sua prima partita ufficiale nel circuito professionistico nell’ottobre del 1995 a Quebec City. Giusto per inserire la data in un contesto comprensibile, nel 1995 le nuove stelline del firmamento tennistico non erano ancora nate. Nell’arco di questi anni Serena Williams ha conquistato 73 tornei WTA. La prima volta è avvenuta il 28 febbraio del 1999 all’Open Gaz de France; l’ultima, almeno fino ad ora dato che con Serena vige la regola del “mai dire mai”, il 12 gennaio 2020 Al ASB Classic di Auckland. Tra i 73 titoli spiccano 23 Prove del Grande Slam, 5 Master e un oro olimpico; ben quattro se si considerano anche i doppi conquistati con la sorella Venus.

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The Irishman, il testamento di Martin Scorsese

Un uomo qualunque, ma non troppo. Un uomo privo di ambizioni, almeno apparentemente. Un uomo che seppur restando nell’ombra è molto di più che un testimone in un particolare periodo storico degli Stati Uniti; quello in cui la mafia muoveva i fili nemmeno troppo sotterranei di una nazione e spesso li tagliava, quando fallì l’invasione alla Baia dei Porci, in cui venne assassinato il presidente John Kennedy prima ed il fratello Robert poi, laddove fu progettata la sparizione del principale sindacalista a stelle e strisce Jimmy Hoffa. Quell’uomo, Frank Sheeran, è l’irlandese, l’indecifrabile protagonista di “The Irishman”, forse la pellicola più grandiosa, più amara, più dolorosa di Martin Scorsese.

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Banshee, il peso dell’identità

Dopo aver scontato quindici anni di prigione a causa di un tentativo di rapina finito male, un uomo ritorna in libertà con la ferma intenzione di ritrovare la sua ex fidanzata e complice, Ana. Braccato dagli uomini di Mr. Rabbit, il boss ucraino a cui aveva cercato di rubare dei diamanti; grazie all’aiuto di Job, un amico hacker, il protagonista localizza Ana e si dirige a Banshee, una cittadina della Pennsylvania. Qui, scopre che Ana ha cambiato identità: ora tutti la conoscono come Carrie Hopewell, si è sposata con il procuratore distrettuale ed ha due figli. Ritrovatosi casualmente in uno scontro a fuoco tra il nuovo sceriffo appena arrivato in paese, Lucas Hood, e alcuni criminali del posto, i quali finiscono tutti uccisi, decide di rubare l’identità dello sceriffo e rimanere a Banshee; un paese soggiogato da un potente uomo d’affari e criminale, Kai Proctor.

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C’era una volta… il prezzo di Hollywood

A Hollywood nessun anno è come tutti gli altri, ma il 1969, lo fu ancor meno di qualsiasi altro. Si stava per chiudere una decade e, come accade spesso al crepuscolo, il mondo si ritrovò in sospeso, in attesa di quel cambiamento che definisce quanto è avvenuto negli ultimi lustri. Come mai prima di allora il cinema si ritrovò in una angosciante terra di nessuno, in preda agli isterismi di chi si rese conto che il vecchio sistema si stava sgretolando. A Hollywood vi era sempre stato un solo padrone: la follia. Nel 1969 si imposero anche la paura e l’incertezza. Se da almeno dieci anni John Cassavetes aveva dimostrato a una fascia di pubblico, che il cinema indipendente, con i suoi contenuti, poteva impensierire il sistema, nel 1969Easy Riderdeterminò una spaccatura, resa ancora più minacciosa da pellicole torbide qualiUn uomo da marciapiede”, violente comeIl mucchio selvaggio” o crudeli come “Non si uccidono così anche i cavalli?”. Fu così che Hollywood non migliorò, né peggiorò. Semplicemente cambiò. E il prezzo da pagare si fece ancora più alto.

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Nel nome di Roger Federer, il semidio cannibale

«Un tempo ero troppo emotivo perché avvertivo le forti aspettative che c’erano su di me. Quando hai talento te ne accorgi, ma quando tutti ti ripetono che puoi diventare il più forte, che puoi vincere questo e quello, che fai apparire facili le cose più difficili, che ridicolizzi l’avversario con smorzate e lob, che sei l’erede di Sampras, allora tutte quelle parole fanno il giro completo e ti tornano in faccia, come un boomerang». Dietro a queste parole emerge tutta la responsabilità di un ragazzo di appena ventidue anni consapevole che il mondo del tennis ha caricato sulle sue spalle tutte le sue aspettative, tutte le sue frustrazioni, tutti i suoi sogni. Era il 2003 e certamente Roger Federer non poteva immaginare che avrebbe finito con il riscrivere la storia di questo sport. Non credeva che intorno a lui si sarebbero create aspettative così enormi da dover accogliere ogni suoi trionfo come doveroso e ogni sua sconfitta come un oltraggio inflitto non contro di se’, quasi contro al tennis stesso. Quel ragazzo ha vinto molto, anzi tutto, per poi rivincerlo. In lui coesiste la via della grazia e la via della natura: il suo talento lo ha reso un semidio, la sua ambizione lo ha trasformato in un cannibale.

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Victoria’s Secret, gli angeli caduti dal paradiso

Correva l’anno 1977 quando il trentenne Roy Raymond, con in mano una laurea conseguita presso la Stanford University, tanti sogni nel cassetto e una moglie amata e bellissima, Gaye; indispettito ogni qual volta entrava in store di lingerie per acquistare qualcosa da regalare alla consorte dove immancabilmente trovava pezzi non di suo gradimento, si fece prestare 40.000$ dai genitori e altrettanti da una banca ed aprì un piccolo negozio di biancheria intima all’interno dello Stanford Shopping Center di San Francisco. Decise di chiamarlo Victoria’s Secret. Nell’arco di un anno guadagnò 500.000 dollari. Questo successo lo ingolosì tanto da finanziare l’apertura altri quattro store, estesi a sei dopo una manciata di stagioni, e offrire un servizio di spedizione, arrivando a fatturare 6.000.000 di dollari annuali. Al che, mollò tutto, vendette il marchio a Leslie Wexner e, da quel momento, non ne azzeccò più una, a partire dalla bancarotta segnata dalla sua società, la “My Child’s Destiny”, fino al suicidio, avvenuto nell’agosto del 1993 quando si buttò dal Golden Gate Bridge.

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Andy Murray, l’umano che sconfisse gli alieni

Verso le 9.30 di mercoledì 13 marzo 1996, il quarantatreenne Thomas Watt Hamilton fece irruzione nella palestra della Primary School di Dunblane, dove ventinove bambini della prima elementare stavano per iniziare l’ora di ginnastica. Estrasse una dopo l’altra quattro pistole e iniziò a far fuoco sui bimbi e sul personale docente per circa quattro minuti. Compiuta la strage, l’uomo rivolse la pistola contro di sé e si tolse la vita. I 105 proiettili esplosi uccisero 16 bambini e la loro maestra. Andy Murray e il fratello Jamie frequentavano la Primary School: avevano rispettivamente otto e dieci anni e le loro classi erano nello stesso piano della palestra dove avvenne quel raccapricciante episodio di cronaca poi ricordato come il massacro di Dunblane. In quel mentre erano in corridoio, ancora disimpegnati per via del cambio delle lezioni. Fu Jamie a prendere per mano il fratellino per condurlo sotto a una cattedra. Finché gli spari finirono, lasciando solo il ricordo.

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Stig Dagerman, il genio bruciato dal dolore

«Cos’è allora il tempo se non una consolazione dato che niente d’umano può essere perenne?».

Di tutti i valori, Stig Dagerman riteneva che il solo in grado di rendere gli esseri umani migliori, di avvalorare il loro passaggio sulla terra, fosse la purezza. La negazione di una qualsiasi forma di compromesso, l’empatia che permette di entrare in sintonia con il prossimo, di generare quella solidarietà emotiva che converge in fratellanza, rappresentavano per Stig Dagerman il comandamento principale, la meta che sola poteva donare pace all’anima. Eppure, crescendo lo scrittore svedese si rese conto come la purezza stesse perdendo ogni parvenza di significato. Responsabile di quel imperdonabile degrado erano le strutture che influenzavano la crescita umana, dalle famiglie agli insegnanti, a chiunque svolgesse un ruolo di guida, che impartisse i diktat dettati dall’esperienza; ossia un vile tentativo di negare tutto ciò che si era sperimentato di più puro, di più vero da bambini. Stig Dagerman riconobbe il cinismo spaventoso, implicito, che si cela dietro all’esperienza, quasi essa fosse il massimo obiettivo da perseguire nella vita. Per questo, l’ingresso nel mondo adulto lo destabilizzò. L’inesperienza per Dagerman era il sale della scoperta, un approccio privo di ipocrisia sul mondo, uno sguardo carico di aspettative rivolto a un miraggio. Per questo motivo Stig Dagerman temeva l’esperienza, madre del compromesso, ossia di un meccanismo contorto spesso guardato con rispetto e ammirazione, ma al contrario, un demone che mira a distruggere la parte migliore, la parte più pura di sé stessi. Per questo motivo, Stig Dagerman si bruciò.

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